Il taglio del numero dei consiglieri regionali scatterà dalla prossima consiliatura di ciascuna Regione, mentre la sforbiciata alle loro indennità e ai Fondi dei gruppi partirà da subito: comincia a profilarsi il decreto sui costi della politica che il governo varerà giovedì e che toccherà pure Comuni e Province. Saranno decisioni valide anche per la Sicilia, dove però per una riduzione dei deputati occorre una legge approvata in doppia lettura dal Parlamento nazionale.
L’esecutivo ha anche sciolto il nodo giuridico sulla possibilità di ricorrere a un decreto per una materia ordinamentale: gli esperti di Palazzo Chigi hanno dato il via libera e il governo è intenzionato ad agire con mano pesante, tagliando il 30% circa delle poltrone e dei fondi. E il presidente della Camera, Gianfranco Fini invita a non tentennare in questo campo.
Lo strumento legislativo da usare è stato il primo punto che è stato approfondito dal sottosegretario alla presidenza Antonio Catricalà, che ha in mano il dossier. Infatti il taglio dei Consiglieri era già stato fissato nella drammatica manovra Tremonti dell’agosto 2011, nel pieno della crisi dello spread (20 per le Regioni con popolazione fino ad un milione di abitanti; 30 per le Regioni con popolazione fino a due milioni; 40 per quelle fino a quattro milioni; 50 per le Regioni fino a sei milioni; 70 per quelle fino ad otto milioni; 80 per le Regioni con popolazione superiore); la misura doveva essere recepita da ciascuna Regione entro sei mesi, cosa che non è naturalmente avvenuta per inerzia delle stesse Regioni.
Le imminenti elezioni del Lazio danno la possibilità al governo di ricorrere ad un decreto, e per di più rendendo le norme di Tremonti direttamente prescrittive per le Regioni, anche se esse le applicheranno solo con i rinnovi dei Consigli.
Ma già il Lazio passerà con il nuovo Consiglio da 70 a 50. La mannaia dovrebbe invece abbattersi subito su indennità e benefit vari di consiglieri e assessori, e in più colpirà anche Province e Comuni. Il metro di paragone sarà lo stipendio dei parlamentari nazionali, rispetto al quale saranno parametrati in percentuale quelli di consiglieri e assessori regionali (per es. il 50% e il 60%), e di Consiglieri e assessori provinciali e Regionali.
In questo contesto le Regioni hanno promesso che non faranno ricorsi alla Corte costituzionale, così come è avvenuto in passato. Anzi ieri è stato il giorno del «mea culpa», da parte di due governatori che purtuttavia non sono colpiti da indagini: «Ammetto che il processo di autoriforma non è andato velocemente come il nostro Paese meritava», ha detto Vito de Filippo, presidente della Basilicata; «L’autonomia ha consentito fatti inaccettabili» ha convenuto Catiuscia Marini, governatrice dell’Umbria.
Quanto alle macroregioni, per Marini «se le Regioni sono un livello principale del decentramento dei servizi, allora difficilmente potranno essere più grandi di quello che sono. Se invece si pensa di affidare loro compiti molto più robusti allora il tema è interessante. Dobbiamo capire quale è il livello del decentramento e bisogna fare attenzione alle semplificazioni apparenti». Marini ha aggiunto di ritenere che il Titolo V della Costituzione «ha bisogno di un aggiornamento: alcuni punti sono di difficile attuazione. Va messo mano al tema della legislazione concorrente: è rimasta una ambiguità che è stata alla base, talvolta, di iniziative pittoresche di alcune Regioni. Serve un riordino delle competenze che dica quelle che sono in campo alle Autonomie e quelle che attengono allo Stato».
Un invito a non tentennare più sui tagli ai costi della politica arriva dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, che cita il taglio di 150 milioni in tre anni inseriti nel bilancio di Montecitorio: «I sacrifici collettivi si possono fare a partire dai costi delle istituzioni. Nessun italiano capirebbe un Parlamento che vota sacrifici e poi non è coerente con questa austerity. Nel taglio dei costi si può fare di più, questo è doveroso».
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