Last updated on Ottobre 18th, 2012 at 10:57 am
Nulla è più eccitante per l’immaginazione di un idealista e martire, sacrificato sull’altare del compromesso. Tanto più se, sprezzante dei pericoli, ha lasciato detto che il proprio sangue sarà il germe su cui fioriranno le proprie idee.
Questo è un aspetto, affascinante, della personalità di Antonio Canepa, capo separatista e fondatore dell’Evis, Esercito volontari per l’indipendenza della Sicilia.
Marcello Cimino, in un articolo degli anni Settanta sul giornale comunista “L’Ora” di Palermo, definì Canepa «Professore guerrigliero» e «Che Guevara» della Sicilia. Il giornalista trasferiva così nell’isola il mito romantico del rivoluzionario di professione, votato alla missione di liberare gli oppressi.
I siciliani che, tra il 1943 e il 1945, chiedendo pane e lavoro e rifiutando la leva insorgevano contro il governo nazionale, potevano ben essere paragonati ai campesinos di Cuba e dell’intera America latina.
Suggestione durata a lungo se nel 2004 Domenico Seminerio raccontava, nel romanzo “Senza re né regno”, la storia di un giovane indipendentista, in fuga dopo la disfatta del colle San Mauro presso Caltagirone, il 29 dicembre 1945.
E si capisce come uno studente in un’aula occupata dell’Università di Catania nel 1968, quando si sognava la rivoluzione mondiale, abbia concepito un tenace innamoramento per Canepa, guerrigliero fatto in casa.
Quel giovane era Salvo Barbagallo, che sarebbe divenuto giornalista di razza e che al capo dell’Evis avrebbe dedicato una vita di studi e investigazioni. Ai due libri pubblicati nel passato, ora si aggiunge un’opera in due volumi edita da Bonanno: “Antonio Canepa Ultimo atto”, con prefazione di Walter Vecellio, e “L’uccisione di Antonio Canepa. Delitto di Stato? Atti e documenti” con prefazione di Marco Di Salvo.
C’è la storia del guerrigliero e quella del mondo in cui visse fra trame locali e internazionali, giochi sporchi, spionaggio, attese e delusioni, con tanti personaggi dal democristiano Aldisio al capo separatista Finocchiaro Aprile, da Charles Poletti a don Calogero Vizzini e Salvatore Giuliano.
Almeno tre le chiavi di lettura: l’ideologia radicale del capo dell’Evis costituisce un esempio perfetto per dimostrare la tesi di una rivoluzione mancata, vecchia categoria applicata al Risorgimento ed estesa alla Resistenza. Canepa era un separatista duro e puro da contrapporre a quelli reazionari e opportunisti, alleati della mafia, disponibili a qualsiasi compromesso, non ultimo la conversione all’autonomismo. Da un lato c’è il martire dall’altro la constatazione di come le aspirazioni rivoluzionarie del popolo siciliano siano state tradite.
Date queste premesse, è conseguente la convinzione che con la morte di Canepa si sia voluto eliminare un personaggio scomodo. In contrada Murazzo Rotto, alle porte di Randazzo, quel mattino del 17 giugno 1945, scattò un agguato che fu il primo delitto di Stato della nuova Italia uscita dal fascismo e dalla guerra. In quel luogo si pose fine ai tentativi di smembrare l’unità nazionale e ai vagheggiamenti di una repubblica siciliana dei lavoratori.
Una tesi suggestiva suffragata dalle contraddizioni, puntualmente rilevate, dei documenti e delle testimonianze, che sembrano ripetere il cliché di un aggiustamento progressivo della versione ufficiale, incapace però di far quadrare ogni elemento. Si può legittimamente dubitare che a sparare contro i sei guerriglieri dell’Evis a bordo di un motofurgone siano stati solo i tre carabinieri di un posto di blocco. Né è credibile che Canepa sia morto per l’esplosione di una bomba a mano che aveva in tasca, visto che nel referto dell’ospedale di Randazzo non se ne fa cenno.
Ma chi fu a sparare? I servizi segreti? La mafia per conto degli agrari e della Dc? Fu una resa dei conti tra concezioni opposte del separatismo? A questo punto Barbagallo non può avanzare altro che ipotesi: il caso resta aperto.
Ripercorrendo l’esistenza di Canepa, Barbagallo non può fare a meno di sottolinearne contraddizioni e incongruenze. Furono le ambiguità del personaggio a spingere Leonardo Sciascia a darne un giudizio negativo. In un’intervista apparsa su “Mondoperaio” nel dicembre nel 1978, disse a Giampiero Mughini che avrebbe voluto farne il protagonista di un romanzo ma, dopo approfondite ricerche, ci aveva rinunciato. Il personaggio era “gretto”. Il perché di un giudizio così aspro, l’aveva spiegato in un articolo, del 19 giugno 1965, su “L’Ora”. Ne fece risaltare l’ambiguità scegliendo come chiave interpretativa del personaggio la biografia scritta nel 1940 dallo stesso Canepa, che l’aveva attribuita a un francese, Jean Soredan, inventando anche il traduttore Federico Vitanza Scotti.
Un gioco di finzioni in cui rientrava anche la fedeltà ai dogmi del fascismo mentre si proclamava la superiorità delle regole democratiche.
Figlio irrequieto della ricca borghesia siciliana, nato a Palermo nel 1908 e presto trasferitosi a Catania, Canepa era fascista e antifascista. Aveva tramato contro la dittatura e scritto libri che erano stati apprezzati dai gerarchi e dai severi custodi dell’ortodossia. Docente di Storia e dottrina del fascismo e di Storia delle dottrine politiche nell’ateneo etneo, era un maestro della dissimulazione. Forse sarebbe piaciuto a Pirandello, ma non poteva piacere a Sciascia: era un personaggio troppo sfuggente, difficile da raccontare e da trasformare in parabola; per di più lo scrittore era prevenuto contro le velleità separatiste e le banalità del sicilianismo storico.
Canepa e L’Evis sono stati comunque una tentazione costante per gli scrittori siciliani. Andrea Camilleri, nel 2008, in un racconto si sofferma sul fallito complotto di San Marino nel 1933, quando Canepa, il fratello minore Luigi e Luigi Attinelli cospirarono con oppositori sanmarinesi per un’azione dimostrativa che mostrasse al mondo quanto fosse viva in Italia l’opposizione antifascista. Il complotto fu scoperto. Luigi Canepa e Attinelli, mandati in avanscoperta, furono arrestati e subirono pesanti condanne, uscirono dal carcere nel 1935 grazie a un condono. Lo stratega fu arrestato a Messina ma evitò la prigione fingendosi pazzo e asserendo di essere un’automobile. Camilleri fa dell’episodio un apologo della follia siciliana.
Il complotto è raccontato con dovizia di particolari da Barbagallo che adombra la possibilità di un intervento del Vaticano in quanto Canepa era nipote di Antonio Pecoraro Lombardo, uno dei fondatori con Sturzo del Partito popolare. In ogni caso, il nostro eroe se la cavò con un ricovero in casa di cura e una diagnosi di frenosi maniaco depressiva, che pare un modo malizioso della dittatura di screditare l’oppositore, vittima di ipertrofia dell’io, schizofrenia e iperattivismo.
Del resto, mentre insegnava dottrina fascista, Canepa nel 1942 faceva circolare all’università, con lo pseudonimo di Mario Turri, volantini contro vent’anni di malgoverno confluiti poi nel libretto “La Sicilia ai siciliani”. Le sue tesi sul separatismo si contrapponevano a quelle espresse dal barone palermitano Lucio Tasca Bordonaro nel suo reazionario “Elogio del latifondo”.
Prima e dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia il 10 luglio del ‘43, Canepa fu attivissimo: spia degli inglesi, sabotatore dell’aeroporto di Gerbini, fondatore del gruppo partigiano “Etna”. In seguito andò prima in Abruzzo e poi in Toscana dove fondò le brigate partigiane “Matteotti”, non riconosciute dal Cln, il giornale “Il Grido del popolo” e il Partito del lavoro. In questa fase più che un partigiano ci sembra un agente provocatore, volto a ostacolare, con il suo estremismo e le minacce alla borghesia, la svolta togliattiana di Salerno.
Tornato nella Sicilia in fiamme nell’ottobre del ‘44, Canepa frequentava le organizzazioni giovanili comuniste, e al tempo stesso faceva proselitismo separatista all’università.
Il comunista Franco Pezzino, anni dopo, avrebbe confessato che, nonostante Li Causi lo avesse messo in guardia, lo ritenne un compagno affidabile fino a quando non fece fallire il sabotaggio delle elezioni universitarie.
Poi il capitolo finale dell’Evis, ovvero quaranta giovanotti riuniti nelle montagne di Cesarò per esercitarsi nella guerriglia e subito dispersi al primo rastrellamento. Si ritrovarono in meno della metà.
A Randazzo il misterioso epilogo: tre morti, Canepa, Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice; un ferito, Nando Romano; due sopravvissuti, Nino Velis e Pippo Amato. Per i sicilianisti Murazzo Rotto divenne luogo della memoria, per Canepa fu la conclusione enigmatica di una vita vissuta nell’ambiguità.
Fonte: LaSicilia
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