Last updated on Ottobre 3rd, 2012 at 11:49 am
Una vera febbre di Sicilia scoppiò nel Settecento, quando si cominciò a intravedere possibile l’utopia di un recupero della grandezza del mondo antico. Ci si veniva da ogni parte d’Europa alla ricerca della dimora perduta, con l’imperativo di ritrovare la magica corrispondenza tra storia e natura che si credeva irrimediabilmente persa altrove. Classicità e paesaggio: erano queste le parole d’ordine del viaggiatore che giungeva fin qui. Ancora oggi questo può essere un punto di vista per afferrare il significato dell’isola. Tracce di un passato fatto di ninfe che si trasformano in fiumi, di rocce scagliate in mare da Ulisse, di porti che accolsero l’approdo di Enea, di templi e teatri tra i più belli e più intatti della Magna Grecia, sono pronti a stupire chi è attratto da questo genere di nostalgie. Ma non solo.
La Sicilia, a differenza di altre regioni d’Italia in cui è un secolo e di conseguenza uno stile artistico a prevalere, nasconde tesori per ogni occasione. Appare come un gioiello medioevale Erice, piccolo paese quasi scolpito nella pietra all’estrema punta occidentale dell’isola. Arroccato su una collina sopra Trapani, investito da una misteriosa nebbia che può far visita anche in pieno agosto, Erice è un posto in cui il tempo sembra essersi fermato. E non è un luogo comune. Il selciato di ciottoli, i piccoli vicoli che si inerpicano fin su la piazza centrale, rendono difficile la viabilità delle automobili. Qui tutto è silenzio. Lo interrompono solo le voci, che parlano un dialetto dal tono sempre un po’ interrogativo. E se ti chiedi in che secolo sei, sono la facciata della Cattedrale e il campanile che la svetta a fianco a suggerirti la risposta. Costruiti tra il ‘300 e il ‘400, si incontrano non appena si mette piede in paese – primi di un lunga serie di edifici sacri – e parlano di un Medio Evo solenne, compatto e solido, fatto di pietra e tutto di un colore: un grigio che, con il riflesso del sole, si tinge di rosa. A pochi chilometri da qui il mondo medioevale offre un’altra faccia, completamente differente. Addirittura opposta. L’oro rifulge nei mosaici che decorano l’interno del Duomo di Monreale e della Cappella Palatina a Palermo. Qui tutto è luce, splendore, fasto. Esagerazione.
A Monreale un gigantesco Cristo domina lo spazio illuminato dai fondi dorati. E le storie della Genesi narrate sulle pareti della navata sono tra gli episodi più affascinanti dell’arte del mosaico tra il XII e il XIII secolo. Alla ricchezza decorativa dell’interno fa da specchio quella esterna dell’abside, su cui il marmo e il tufo si intrecciano quasi in un ricamo multicolore. Anche il chiostro, appartato e assorto, fa in modo di meravigliare con la follia degli ornamenti di colonne e capitelli in cui convivono gli elementi geometrici, di derivazione araba, e la narrazione di episodi biblici, scolpiti con grande fantasia. “La meraviglia delle meraviglie… il capolavoro più assoluto che si possa immaginare… lascia senza fiato”. Sono queste le parole che lo scrittore francese Guy de Maupassant usa, nel 1890, per descrivere i bagliori dorati di influsso bizantino della Cappella Palatina, all’interno del Palazzo Reale di Palermo. Ed è nel capoluogo che, senza fare troppa, strada, ci si imbatte nella pacatezza rassicurante della pittura e della scultura rinascimentale. Sono due figure femminili che incarnano questo nuovo modo di vedere e di interpretare il mondo, sottoposto alla regole della regione. La prima è la Vergine Annunciata di Antonello da Messina, fanciulla dal volto simile a quello di tante ragazze che incontri ancora oggi nelle strade della città, è vero. Ma anche immagine intangibile che si esclude dal mondo con la fermezza dello sguardo e del suo gesto benedicente.
E l’altra è Eleonora d’Aragona, la cui esile grazia è fissata per sempre nel marmo della mano di Francesco Laurana. Sono entrambe conservate a Palazzo Abatellis, la galleria regionale sistemata negli anni Sessanta secondo le più aggiornate soluzioni museali dal genio architettonico di Carlo Scarpa (1906-1978). Altri luoghi, altri mosaici. Come quelli della Villa del Casale di Piazza Armerina, proprio al centro dell’isola. Sono tardo-romani e si possono datare tra il III e il V secolo. Li ha salvaguardati un’alluvione che, nel XII secolo, ha coperto la villa, un’antica azienda agricola, sotto uno strato di limo. Devono la loro fama alla grande qualità, al loro stato di conservazione, al fatto che siano stati lasciati nel luogo di origine, alle variopinte e indimenticabili scene di caccia e cattura di belve, nonché alla raffigurazione di dieci ragazze ritratte in un pionieristico bikini. Uno dei tanti aspetti del mondo classico riemerso. La città che forse più di tutte evoca i fasti di un glorioso passato è Agrigento, l’antica Akragas che il poeta Pindaro definì “la più bella tra i mortali”. La Valle dei Templi è anch’essa dorata.
Ed è la luce del sole che viene assorbita e, nello stesso tempo, emanata dal tufo arenario (il materiale con cui si costruivano gli antichi edifici che ha il colore e il calore dell’ambra) a creare questo incredibile effetto. Ancora una volta siamo di fronte a misteriosi accordi e imprevedibili armonie tra l’intervento dell’uomo e l’azione della natura. Ma sono solo di templi, di cerimonie e sacrifici scomparsi, è fatta l’antichità. E il Teatro Greco di Taormina è un esempio di quanto i reperti possano essere vitali. Tutt’altro che pietra morta, ospita continuamente spettacoli ed eventi del tutto contemporaneamente spettacoli ed eventi del tutto contemporanei come la serata del David di Donatello. Il cardinale John Henry Newman lo definì la più vicina via d’accesso alla contemplazione dell’Eden. E non c’è scrittore, poeta o viaggiatore, da Goethe e Maupassant, fino al nostro Piovene, che non ne abbiamo descritto il fascino. Una suggestione che deriva dalla scelta da parte di chi lo ha progettato del punto esatto in cui il teatro avrebbe dovuto sorgere.
In modo da consentire allo spettatore di trovarsi di fronte a due spettacoli: quello scritto e interpretato dall’uomo e quello offerto dal tramonto del mare. I romani, poi, vollero completare l’opera con un elemento pratico: un velario che proteggesse dal sole e dalla pioggia. E se la razionalità è consuetudine nell’arte classica, non ci si può dimenticare che la Sicilia è attraversata da esempi di architettura e scultura che sono un tripudio alla fantasia, all’assenza di ogni ordine e ragione, all’eccesso. Ecco il barocco sfrenato di un intero paese come Noto, l’innalzarsi fiero del Duomo di San Giorgio al centro di Modica o di quello di Ibla, la parte più antica della città di Ragusa. E se colonne, balaustre, intagli, rotondità, volute non sono bastate a sorprendere, basta entrare negli Oratori di Santa Cita e di San Lorenzo a Palermo per venire investiti dalle incredibili decorazioni a stucco realizzate da Giacomo Serpotta tra Sei e Settecento. Il trionfo estetico di chi ha scelto di osare.
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