Last updated on Ottobre 1st, 2012 at 03:54 pm
Esiste in Italia, e si sta diffondendo all’estero, una letteratura descrittiva della mafia che ha grande successo e, lo notava già Sciascia, che non aiuta a conoscerne la fisiologia. Per rendersi conto delle cause originarie del fenomeno bisogna ricorrere ad analisi storiche datate dallo scorso secolo o addirittura da quello precedente.
Si obietterà che analizzare le origini di un fenomeno serve poco, quando incalza la necessità di riparare alla patologia immediata. E’ qui l’errore. Il sistema mafioso, sottolineando la parola “sistema” non è il ritrovato di una criminalità ingigantita dalle possibilità di connessioni multiple con la società circostante: è la continuazione, nel XXI secolo, di forme associative elementari risalenti alla notte dei tempi. Questo significa che per modificarle bisogna incidere profondamente nelle motivazioni arcaiche da cui discendono: non basta colpirne gli effetti devastanti, o scandalizzarsene senza intenderne le ragioni.
I Conquistadores stracciarono le culture meso-americane (di cui molte strutture erano decisamente barbariche), ma non ne studiarono le formule che, oggi, sopravvivono sotto forma di insubordinazione guerrigliera di cui talora emergono i nomi (Tupamaros, Sendero Luminoso…), e non si lasciano scardinare perché fanno parte non della patologia popolare, ma della sua genealogia.
E’ una premessa fondamentale se vogliamo intendere il senso dell’egregio lavoro di cui imprendiamo a render conto.
La “Trilogia” di Angelo Mancuso (classe 1928, una lunga carriera di giornalista e di autore teatrale alle spalle) che è stata recentemente pubblicata su “Sipario” e si compone di “La consegna”, “Rifiuto” e “Madre Sicana” contiene storie di orrore, come tante ne vengono stese sull’onda della cronaca criminale, ma con quello sguardo profondo che abbiamo imparato suo libri di Lévi- Strauss (il quale non andava a studiare i costumi dei Nambikwara portandosi appresso Montesquieu).
La trilogia, secondo il modo di partizione attico, si può rappresentare separatamente, in quanto verte su un solo tema, ma non necessariamente come una sequela incatenata.
La chiave di volta non ne sono gli omicidi, le vendette, gli eventuali pentimenti, la ferocia di cui si legge nella mafiologia militante o romanzante. Cerca di indagare, con lo scandaglio che al teatro è concesso dalla stessa dimensione rappresentativa, su che cosa sia il fenomeno. La direzione è quella della arcaicità del sistema che valeva nel periodo arcaico quando homo homini lupus; quando la società era costituita da un clan di qualche centinaio di persone in lotta efferata contro gli altri clan, contro gli animali, contro le intemperie. I cavernicoli non avevano codici di procedura penale; non avevano ministeri degli affari esteri. Il capo aveva potere assoluto e indiscutibile, secondo una gerarchia che veniva chiamata sacra, prima ancora che questo termine acquistasse i valori spirituali che oggi ci sono familiari.
Angelo Mancuso si spinge verso quelle configurazioni attraverso allusioni: la madre è Sicana per indicare quella fuga nel tempo che va molto oltre i pochi millenni di cui si sono conservate tracce scritte, e di cui si indovinano i tratti nelle tradizioni mitiche.
La madre che sta in cucina è la dispensatrice della sussistenza a cui tutto si deve: la vita e la morte (Althea uccise il figlio come tante eroine dei miti e delle favole).
Questi rapporti indiscutibili si sono conservati nella mentalità primitiva che alloggia tra di noi nei raggruppamenti umani che ripetono modi del pensiero selvaggio: “Che ti pare? Che la vita è come un vestito che si può cambiare a piacimento ah?: sono le parole di una madre preistorica che ritornano nella “Consegna”: “Hai un solo dovere, un dovere preciso, un comandamento che ti viene dal sangue che ti scorre nelle vene…”
Eccoli i tratti che abbiamo dovuto richiamare nella premessa dall’apparenza etnografica. Nel sistema arcaico le leggi non sono illuministiche, ma pratiche, non dettate dal legislatore, ma dal padre.
“Zia Carmè, se me lo permettesse vorrei essere io a fare giustizia…” dice un picciotto nel Rifiuto e la “giustizia” è quella che ormai si chiama omicidio premeditato e aggravato. Ma questa definizione risale al codice di Solone o a quello di Mosé o di Hamurrapi: tre o quattro millenni scarsi dell’evoluzione umana. Prima, quello che divenne il ius stabilito dagli dei per l’intero popolo, era la “salvezza” del singolo clan, conquistata ferocemente a danno dei clan rivali e di volta in volta indicata da chi deteneva il potere (il patriarca nelle società pastorali, la matriarca in quelle dei primordi agricoli). L’obiettivo era la salvezza del piccolo gruppo: la Nazione, lo Stato, l’umanità, non avevano neanche un nome.
Parlare di questi temi richiederebbe lunghissimi studi e moltissimo tempo che ovviamente la prassi giudiziaria e l’indagine sociale odierna non può permettersi. Ma nella Trilogia di Angelo Mancuso, fine osservatore e intelligente drammaturgo, tutti questi temi sono analizzati con lucidissima sintesi.
Se si portassero sulle scene potrebbero costituire quella illustrazione della civiltà che molti denunciatori superficiali continuano a strombazzare senza nulla fare per spiegare la sopravvivenza del sistema tribale e dunque analizzarne i rimedi.
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