Lo Statuto siciliano, pur essendo stato approvato nel 1946, è divenuto poi una legge costituzionale che può essere modificata a mezzo di un procedimento particolare, anzi di due: l’Assemblea regionale siciliana può elaborare un testo di statuto da sottoporre all’approvazione delle Camere; oppure queste ultime (concretamente il Governo o i parlamentari) possono prendere l’iniziativa, ma deve sentirsi l’Ars, la quale esprime parere entro due mesi.
Ciò è stato disposto sulla base dell’idea che lo statuto speciale sia una sorta di patto tra lo Stato e la Regione, concretamente tra le forze politiche e sociali attive a livello statale e locale. Disposizioni analoghe sono previste per la revisione degli altri statuti speciali per le Regioni ad autonomia differenziata, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Sardegna (qui addirittura è previsto un referendum consultivo della popolazione regionale dopo la prima votazione ad opera delle Camere).
La riforma costituzionale che il 4 dicembre incide sull’autonomia delle Regioni ad autonomia speciale sotto due profili.
Per un primo versante, quello organizzativo, la revisione comporta la modifica della composizione del Senato, che dovrebbe risultare costituito anche da 74 consiglieri (da noi deputati) regionali, al tempo stesso presenti ed in attività a Palermo (come negli altri capoluoghi delle Regioni a statuto speciale) e, appunto, al Senato. Ritengo che lo Stato abbia la possibilità di modificare il suo assetto strutturale e quindi di mutare la composizione dei suoi organi, anche se ciò ha riflessi sull’organizzazione di tutte le regioni, comprese quelle speciali: si pensi solo alla necessità che i consigli regionali programmino i loro lavori sulla base delle “assenze” dei loro membri, impegnati nei lavori al Senato. Allorquando modifica il “suo” apparato istituzionale lo Stato non ha motivo di contrattare con le autonomie regionale, anche se deve porsi il serio problema di non vanificare la loro autonomia, anche organizzativa, e di rispettare quello che tutti definiscono il principio di leale collaborazione, appunto nei rapporti tra Stato e Regioni.
Epperò, la riforma incide anche sulle compenteze delle Regioni ad autonomia speciale, che è il contenuto “duro” dei rispettivi statuti. Si prevede, infatti, che sino alla riforma di questi (quello siciliano attende dal 1946 di essere revisionato), le Regioni speciali siano competenti anche per la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente. Allorquando verranno riformati gli statuti, alle Regioni si applicheranno anche le competenze – tra l’altro- su politiche sociali, ordinamento scolastico ed istruzione universitaria, politiche attive del lavoro, ordinamento sportivo, attività culturali e turismo, governo del territorio.
Ma qui si tocca il problema delle competenze regionali, che è il vero nodo della rispettiva autonomia. O la riforma al riguardo è pienamente precettiva, nel senso che contiene regole che i prossimi statuti dovranno prevedere, ed allora ciò avrebbe richiesto la compartecipazione nella decisione delle Regioni che quelle funzioni debbono esercitare. Ovvero sui contenuti delle future competenze delle Regioni ad autonomia speciale la riforma è meramente indicativa (solo un suggerimento per i prossimi statuti, se e quando verranno), ma ciò svilisce il senso medesimo della regola che è pur sancita in una legge costituzionale.
Agatino Cariola, giornale de La Sicilia
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