A cura di Danilo Serra.
«Rendimi umano, o notte, rendimi fraterno e sollecito. Solo umanitariamente si può vivere. Solo amando gli uomini, le azioni, la banalità dei lavori, solo così – ahimè -, solo così si può vivere. Solo così, o notte, e io mai potrò essere così!».
Fernando Pessoa, brano tratto da Il passaggio delle ore (Ode sensazionista).
La banalità è il luogo in cui noi stessi siamo. Quando mi domandano cosa penso della realtà, in mente ho solo una parola: banalità. Nella domanda Cosa pensi della realtà? non m’importa più comprendere cosa sia «realtà», se davvero ciò che chiamo realtà ha una sua dimensione esistenziale o, per utilizzare un linguaggio un tantino più sofisticato, una sua “consistenza ontologica”.
Insomma, domande del tipo Esiste la Realtà? non sono più oggetto della mia attenzione, non mi provocano affatto.
Riflessioni di questo genere sono destinate a perdersi e districarsi (cestinarsi) in tediosi e stancanti convegni universitari – Dio c’è ne scampi! Ho la fortuna di vedere bene ciò che si consegna dinanzi a me – non so quanto tutto questo potrà durare, non essendo propriamente io il sommo visionario del mio futuro. Non mi manca la vista. Non sono cieco. E adesso, dopo tutto, mi rendo conto che è soltanto accidentale il fatto che non lo sia. Ciò che sto per de-scrivere è ciò che mi tormenta. Posso far finta di fregarmene. Posso velare la problematica, un po’ come fanno le devote donne musulmane quando si coprono interamente il proprio sacro viso. Ma non sarebbe onesto né utile nascondere e nascondersi per sempre, o per un considerevole periodo temporale.
Ciò che sto per scrivere è ciò che renderà il mio scritto popolare. Almeno un anno, un mese, un giorno, un minuto, un secondo. La questione affascina, esalta il lettore. Ma tutto ciò è inquietante, spaesante. E lo sappiamo pressappoco tutti.
Gridiamo in coro, all’unisono: siamo dominati dalla banalità.
In questo grido straordinario ristagna la nostra stessa esistenza, il nostro medesimo modo d’essere. Pensare, in una società-della-banalità, è il fallimento di qualunque intellettuale. Per «intellettuale» intendo, sia chiaro, chiunque usi con discrezione il proprio intelletto, ponendolo in atto, attualizzandolo. Nel pensare fallisco, mi estinguo, mi rendo solitario. Pensare oggi, nel 2020, è un dramma. Esso è lo scacco dell’intellettuale, la sua più pungente mortificazione, il suo mancato riconoscimento in una società che non intende assecondare, una socìetas sommersa dalla spazzatura del banale.
La gente vuole la banalità, cerca la banalità, vive la banalità. Pensare è superfluo, inutile, urla a squarciagola il popolo divenuto gente. Ed urlo così anch’io vedendo intorno a me mucchi indefiniti di somari che a poco a poco pervengono alla mortificazione di sé, auto-distruggendosi, scomparendo.
Loro si mortificano, richiamando in sé la morte. Io, pensando, sopraggiungo alla medesima sorte. Il morire è ciò che ci rende fratelli, uniti, legati. Il vivere è ciò che ci lascia essere singolarmente distinti e distanti.
Così, scrivendo, sembra quasi che abbia delineato una strana dicotomia, o per meglio dire una consistente opposizione. Quell’opposizione che vede protagonisti il pensare e la banalità. Pensare si oppone al banale; la banalità si oppone al pensare. Le cose, in effetti, stanno in questa maniera, pur essendo i termini «pensare» e «banale» troppo ampi e difficili da definire per iscritto e per giunta in poche righe.
Mi limiterò a fare semplici esempi per dare un’immagine significativa di ciò che io intendo per «pensare» e per «banale». Un uomo che umilia un suo simile è per me banale. Un uomo che reputa inferiore un altro uomo è per me banale. Poniamo il seguente caso astratto: siamo all’interno di una biblioteca il cui accesso non è totalmente libero. Noi siamo entrati perché avevamo i “giusti requisiti per entrare”: così ci avevano detto all’ingresso. Scopriamo dopo un po’ di tempo che i giusti requisiti per entrare in quella biblioteca sono: l’essere bianco, l’essere eterosessuale, l’essere cristiano-cattolico.
Una realtà come questa come la vuoi chiamare se non banale? Per fortuna quello che ho descritto è soltanto un caso astratto, uno scenario non-reale…o mi sbaglio? Azzuffarsi, per esempio, adesso (ancora) nel nome del razzismo o dell’omofobia è il segno di un increscioso sostare in una società-della-banalità. Ci sarebbero tanti altri esempi da proporre, ma non dilunghiamoci in faticose enumerazioni di banalità altrimenti potremmo rischiare di confonderci. E non è affatto nelle mie intenzioni. Un uomo che dialoga incondizionatamente con un altro uomo è invece per me un uomo che pensa. Un uomo che guarda in faccia un suo simile, che lotta dialetticamente con un suo simile, che scambia doni con un suo simile è per me un uomo che pensa.
Pensateci un po’, non tutto è perduto. Pensate alla vita, oh Voi che Siete! E pensando uscirete dal folle vortice della banalità. Un vortice risucchiante la massa ovvero la molteplicità degli uomini. Ma la massa è un concetto astratto, irreale. L’esistenza è il carattere dell’individuo, del singolo uomo che vive il vissuto “qui” ed “ora”. Nella singolarità dell’uomo la battaglia contro la banalità può produrre degli effetti prorompenti, positivi, vincenti. Oltrepassare la banalità è lo scopo della riflessione, la sua vitale responsabilità. Il termine «riflessione» discende dal latino “flecto”, traducibile con “piegare”, “flettere”.
Riflettendo io oriento il mio pensare: rivivo in un’altra dimensione determinate problematiche, giungendo alla conquista del proprio “me stesso”. La banalità appartiene alla massa, ma la massa non esiste. Eppure la banalità c’è, sussiste, è sotto i nostri occhi. Ne sentiamo il fetore. L’umano è un orbita potenzialmente oscillante tra la banalità e il pensiero.
La vita impone una scelta: pensare o affogare nella banalità?
La libertà dell’uomo consiste nella sua libera possibilità di scegliere il proprio cammino, delineando passo dopo passo il personale e delicato destino. Un destino a cui si giunge non inginocchiandosi o ballando o compiendo un qualunque altro rito salvifico e miracoloso. Il mio destino è sempre legato alle mie azioni comportamentali. Il destino, il mio destino, è ciò che è destinato, trasmesso, compiuto da me in quanto essere vivente. Al destino, in definitiva, si giunge vivendo, essendo.
Pensare o affogare nella banalità?