Il corrompimento ha fatto degli iscritti una massa di sudditi.
Il calo di iscritti al Pd ha fatto notizia, anche se le iscrizioni per l’anno in corso non si sono ancora chiuse. Tanti interpretano la fuga degli iscritti dai partiti come una conferma dell’irreversibile declino del partito di massa, che ha avuto un ruolo decisivo nella creazione della Repubblica e nell’avvio e consolidamento del processo democratico.
Un declino che certo non è iniziato con Renzi, ma nel corso degli anni della Seconda Repubblica, quando via via si è smantellato il sistema dei partiti divenuti organizzazioni dedite prevalentamente alla raccolta del consenso a sostegno del leader, e non più luoghi di elaborazione del pensiero politico e di organizzazione della discussione pubblica ove si definiscono collettivamente le politiche.
Di fronte ad una generale crisi dei partiti, avere centomila iscritti o averne il doppio o il triplo, soprattutto se le iscrizioni lievitano in occasione delle primarie e della formazione delle liste da presentare alle elezioni, può significare poco o nulla.
Gli iscritti, infatti, costituivano una grande risorsa per partiti che avevano una dimensione comunitaria, valorizzata da militanti fortemente motivati, convinti com’erano che attraverso la politica si potesse cambiare il mondo per realizzare quel “sogno di una cosa” di cui parlava Pasolini.
Al di fuori di questo impegno collettivo, è inevitabile che la vita di partito si riduca ad una convivenza, sempre più difficile, tra gruppi che convergono e divergono su progetti di spartizione e gestione del potere.
La crisi dei partiti non è soltanto il risultato di un atteggiamento di disincanto sociale verso la politica a causa della bassa qualità morale e culturale delle classi dirigenti. È anche il risultato della fine del nesso che esisteva fra regime delle libertà economiche e regime delle libertà politiche, in conseguenza dell’affermarsi di un potere economico totalitario.
Il potere politico sempre più appare come un sottosistema di quello economico. In questo contesto, è difficile fare dall’interno dei partiti battaglie per garantire agli individui un’esistenza libera e dignitosa.
Bisogna tenere conto di tante compatibilità, che rendono i margini di manovra molto stretti. Tuttavia, il rifiuto del partito deriva anche da un processo di corrompimento della sua vita interna che ha fatto degli iscritti una massa di sudditi, chiamati a giurare cieca fedeltà ai vertici politici.
Eppure, nelle società contemporanee c’è tanta disponibilità alla nobilitazione su temi che riguardano il destino delle persone e ciò che si deve intendere per progresso.
La società si divide su questi temi anche se, in assenza di una discussione pubblica adeguata, viene spinta verso posizioni di mera protesta.
Esistono, quindi, le condizioni per riaffermare il primato della politica, ovviamente con attori politici che sappiano leggere le cause reali del disagio sociale e dare ad esso risposte adeguate. Lo spazio per iniziative politiche di grande respiro, quindi, c’è. Purtroppo è uno spazio che i partiti non riescono ad occupare anche per il modo come vengono scelti i gruppi dirigenti e lo stesso leader, sovente incoronato più che eletto.
Al tramonto del partito di massa ha, poi, contribuito non poco la decisione di fare le primarie per l’elezione del segretario. Se il leader, infatti, non lo elegge l’ iscritto ma anche il cittadino elettore, non si comprende bene che cosa ci stia a fare l’iscritto nel partito.
Si tratta di un equivoco che incide negativamente sulla stessa natura del vincolo associativo, sul senso di appartenenza ad una comunità politica.
Un partito ha diritto di esistere se concorre a promuovere una cultura politica, se esprime un’identità collettiva, se riesce ad orientare l’opinione pubblica e non a subirne passivamente gli umori che si esprimono attraverso i sondaggi e la Rete.
Era questa l’idea che dei partiti aveva il costituente, che affidava ad essi l’importante ruolo di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non pare dubbio che il declino del partito sia conseguenza anche del declino del metodo democratico prodotto da un modello di partito leaderistico sempre più affrancato dal rispetto di regole che definiscano i confini insuperabili del potere che può esercitare “il capo”.
Il mancato rispetto del metodo democratico – anche in occasioni nelle quali viene mobilitata la platea degli iscritti, come quella della messa a punto delle liste dei candidati, ormai da molti anni bloccate – ha dato una sostanziale legittimazione a chi, dissentendo dalle decisioni prese dagli organismi di vertice del partito, ritiene di potere fare ciò che reputa opportuno rifiutando, quasi per principio, il vincolo costituito dall’appartenenza al partito e al gruppo parlamentare. È inevitabile, del resto, che un partito privatizzato diventi un partito sempre più anarchico quando il leader non riesce ed esercitare un grande potere.
Se a questo stato di cose non si pone rimedio ripristinando le abitudini democratiche, anche attraverso una legge, è difficile un ” ritorno” del partito che possa ridare alla vita politica il decoro perduto.
La decisione del Partito democratico di entrare a fare parte della famiglia del socialismo europeo, da questo punto di vista, può costituire un’opportunità per dare ad esso un amalgama riformista, e quindi una più limpida vita democratica. Il che comporta, tra l’altro, che le decisioni prese a larga maggioranza negli organi di partito o nei gruppi parlamentari non possono poi essere messe in discussione dai singoli nel momento in cui si tratta di votare nelle assemblee elettive. È un sacrosanto diritto dell’opinione pubblica capire ciò che si decide all’interno dei partiti e perché, ma anche ciò che impedisce di dare puntualmente seguito dentro le istituzioni a quelle decisioni.
Lo sfascio dei partiti finisce con lo sfiancare le istituzioni. Ha fatto bene Renzi a evocare questo rischio, dichiarandosi anche preoccupato del calo degli iscritti. E bene hanno fatto, dentro il Pd, coloro che pur non condividendo la riforma del mercato del lavoro presentata dal governo si sono alla fine allineati, con dichiarazioni pubbliche, alle decisioni prese a larghissima maggioranza dalla direzione del partito. Si tratta di una regola che purtroppo sembra non valere nei cosiddetti partiti padronali.
Le correnti non fanno male ai partiti, né svalutano il senso dell’appartenenza, anzi possono rafforzarlo se esse danno vita ad un confronto, anche duro, quando si tratta di fare scelte di grande valenza politica. Se le correnti costituiscono non luoghi di elaborazione e di discussione di linee politiche, bensì gruppi di potere aggregati intorno ad alcune personalità, che rivendicano una gestione consortile anche delle grandi riforme, magari stravolgendone il senso attraverso mediazioni infinite, è inevitabile che esse diventino fonte, non secondaria, di degrado della vita politica.
Salvo Andò La Sicilia
Sicilia Notizie Cronaca Attualità News Politica Economia Lavoro Enogastronomia Sport Viaggi