“Se l’Europa vuole un futuro deve integrare le aree deboli del Mediterraneo, a cominciare dal Mezzogiorno. Purtroppo negli ultimi vent’anni l’Ue ha guardato ad Est, così come l’Italia ha pensato solo al Nord.”
È un’analisi impietosa quella di Sergio D’Antoni, in un libro fresco di stampa (“In Europa da Sud”, Edizioni Lavoro) che farà discutere. Con una prefazione “doc” scritta a due mani da Romano Prodi e Raffaele Bonanni.
D’Antoni, lei sostiene che il Sud, l’Italia e l’Europa abbiano oggi lo stesso destino.
«C’è uno stretto legame fra la crisi che investe le economie occidentali e la cattiva distribuzione della ricchezza. Questo vale soprattutto per l’Italia e per il suo dualismo territoriale, che non ha pari in Europa. Il Mezzogiorno è stato abbandonato in questi anni. I soldi pubblici sono andati in altre aree. Il risultato? Venti milioni di persone hanno tagliato drasticamente i consumi, con effetti drammatici anche sulle aziende del centro nord».
Pensa che ci sia stato un complotto contro il Mezzogiorno?
«C’è una responsabilità della classe dirigente nazionale, che negli ultimi vent’anni ha pensato di risolvere i problemi del nostro paese con l’egoismo. C’è poi una responsabilità della classe dirigente meridionale, che ha fornito l’alibi perché tale egoismo trionfasse».
Quando parla di classe dirigente a chi si riferisce?
«I governi di centrodestra hanno teorizzato l’abbandono del Mezzogiorno affermando che i soldi dati al Sud sono comunque destinati a foraggiare clientele e mafia. Pensiamo ai soldi scippati al Sud per le quote latte. Questa retorica continua anche con Grillo, come dimostrano le sue dichiarazioni in sede Ue. Ma anche la sinistra ha avuto un comportamento contraddittorio. Da una parte ha contrastato questa deriva leghista. Dall’altra non ha mai posto la questione meridionale come la vera priorità nazionale. Oggi si deve aprire questa riflessione».
È anche un appello al governo Renzi?
«Certo. La sinistra di governo deve capire che il riscatto del Mezzogiorno è essenziale al paese. La Germania in vent’anni ha integrato 23 milioni di tedeschi dell’Est spendendo quasi cento miliardi di euro l’anno. L’Italia si ferma a 6».
Qualcuno replicherà che il Sud di soldi ne ha avuti in abbondanza non sapendoli spendere.
«Non lo nego. Ma c’è anche un pregiudizio ideologico frutto di una pubblicistica interessata. Bisogna creare le condizioni di convenienza per attirare capitali produttivi. Basterebbe applicare il credito d’imposta per gli investimenti al Sud, uno strumento automatico, controllabile, trasparente. Cosa che il Governo Prodi era riuscito a fare».
Se non si è fatto vuol dire che l’Europa non è disposta più a darci credito, visti gli scandali sull’utilizzo del denaro pubblico.
«Gli scandali sono ovunque, pure al Nord. Lo vediamo a Milano e a Venezia. Perché, poi, il Mose si può fare e l’alta velocità nel Sud no? Politica è fare scelte nette, se non si assumono decisioni si blocca tutto. Prendiamo Gioia Tauro: l’Europa ha deciso che dovrebbe essere un porto franco. Eppure al Senato la legge giace da un anno e mezzo. Perché? Queste sono le domande che bisognerebbe fare alla classe dirigente italiana».
Nel libro lei sostiene che si possono creare 500 mila posti di lavoro produttivo nel Sud, utilizzando i fondi europei per la coesione. In quali settori bisognerebbe investire?
«In primo luogo nelle infrastrutture. Non puoi condannare una parte del paese a non avere la banda larga, le ferrovie, le autostrade. E poi bisogna sostenere i progetti industriali di sviluppo. Per aumentare la produttività ci vogliono investimenti. Un’azienda che chiude i battenti nel sud ormai non fa notizia. Penso alla Fiat di Termini Imerese. Per non parlare dell’Eni che vuole chiudere la raffineria di Gela cancellando 700 milioni di investimento».
Nel libro lei reclama un patto sociale. Ci sono oggi le condizioni per una nuova stagione di concertazione?
«Bisogna creare le condizioni per una nuova e buona concertazione. Così come nel biennio 92 -93 fu la lotta all’inflazione, oggi dovrebbe essere la crescita, il sostegno alla domanda interna, la nuova occupazione. Non a caso c’è la necessità di un nuovo rapporto tra capitale e lavoro. Una ricetta sempre osteggiata dalla destra confindustriale e dalla sinistra sindacale antagonista».
Lei intanto ha assunto la presidenza del Coni siciliano.
«Penso che dare un contributo per rilanciare impianti e attività di aggregazione, specialmente in una terra come la Sicilia, sia un antidoto formidabile alla solitudine sociale e alla fascinazione della criminalità. Un messaggio che cercheremo di lanciare il 24 luglio, in occasione degli Stati generali dello sport siciliano. Con la mia esperienza voglio dare un contributo senza turbare le coscienze di alcuno. E siccome lo faccio gratis, senza indennità, senza prebende, credo che questa sia la dimostrazione più concreta del mio impegno». Rosa Garfì la sicilia
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