Matteo Renzi non ha preso parte lunedì sera alla riunione dei senatori Pd, né si è seduto al tavolo dell’incontro annullato con M5s. Ma se il premier avesse dovuto essere presente ad entrambe gli appuntamenti, un immaginario «40,8%» avrebbe campeggiato a caratteri cubitali alle sue spalle.
È da quel numero, che gigantesco faceva da sfondo al palco dell’Assemblea nazionale Pd, che Renzi trae la sua forza e misura le altrui debolezze. È quel consenso che oggi lo legittima a chiamare “sabotatore” chi frena.
L’accordo con Berlino è questo: riforme in cambio di flessibilità su deficit e debito.
Così il premier stressa fino all’inverosimile il quadro politico, sfiora la rottura con Beppe Grillo (che prima alza la voce e dice «stiamo scivolando lentamente verso una dittatura a norma di legge», poi rincula), sfida i frondisti del suo Pd e quelli di Forza Italia, sventola l’ormai blindato “patto del Nazareno” e chiama tutti a fare «poche chiacchiere».
I voti conquistati da Renzi alle ultime Europee – e paradossalmente ancor più quelli non conquistati dai suoi competitor – hanno consentito ieri al premier di forzare ancora la mano, con l’idea di portare a casa entro il Consiglio Europeo del 16 un primo sì su quello che con forza vuole: un Senato non di eletti e la fine del bicameralismo perfetto. Poi sarà la volta dell’Italicum, senza preferenze e con alte soglie di sbarramento.
Quando è risultato chiaro al Pd che Renzi non sarebbe andato a Palazzo Madama, dove ancora sul ddl Boschi manca un testo formalizzato, i frondisti hanno cominciato a chiedersi che senso avesse allora vedersi e cercato il rinvio.
E anche l’altra riunione decisiva, quella dei senatori ribelli di Forza Italia, dopo l’appello scritto di Berlusconi a «sostenere le riforme» concordato con Renzi, resta «desiderata» dei più romantici.
Debole anche la minaccia di non votare la riforma di Ncd, per non parlare della posizione di estrema fragilità dei pentastellati, di fatto estromessi dai giochi alla vigilia dell’approdo in Aula.
Time out, dice a tutti Renzi, correndo certo il forte rischio di saldare malumori e ribellioni di diversa natura e di veder crescere (come già accade) nel suo e negli altri partiti l’insofferenza forte verso tanto decisionismo.
Ma un premier che non riesce a fare le riforme nel suo stesso Paese – è il ragionamento che si fa in ambienti parlamentari – difficilmente sarà credibile da presidente del semestre europeo quando vorrà rovesciare le regole dell’Europa.
Da qui trae forza Renzi nella sua sfida, anche di fronte a chi nel suo governo, come ieri il ministro Pd Maurizio Martina, chiede costruttivamente che la minoranza venga ascoltata e l’Italicum cambiato.
Parole a parte merita la partita del premier con i Cinque stelle. Lo scontro ormai è alla vista di tutti e, dopo l’incontro negato, Grillo si accalora: «M5S rappresenta milioni di italiani che non possono essere trattati come dei paria, come dei cani in chiesa, da personaggi mai eletti in libere elezioni, da sbruffoni della democrazia».
Ma Renzi lo zittisce e twitta: «Io sono un ebetino, ma almeno voi avete capito quali sono gli 8 punti su cui M5S è pronto a votare con noi? ».
Sbandamento nelle fila grilline, con il leader che prima smentisce le «porte aperte» annunciate da Di Maio e poi tenta di restare in partita e di riaprire il dialogo. Con l’hashtag finale del premier («#Poche chiacchiere») la partita sembrava definitivamente chiusa. Ma la mossa a sorpresa dei 10 «sì» messi per iscritto in zona cesarini potrebbe riaprirla ancora una volta. Milena Di Mauro la sicilia
Sicilia Notizie Cronaca Attualità News Politica Economia Lavoro Enogastronomia Sport Viaggi