E’ un governo del premier con una forte impronta politica.
La nascita del governo Renzi, per il modo come è avvenuta, ha prodotto delle novità che sembrano destinate a incidere in modo rilevante sugli stessi assetti istituzionali.
La prima novità è costituita dal fatto che non si tratta di un governo del Presidente, così come era avvenuto finora con i presidenti del Consiglio privi di un’investitura popolare. L’investitura Renzi l’ha avuta dal Pd, il partito di cui è segretario e nel quale può contare su una larghissima maggioranza. Il governo nasce quindi come governo del Premier che, pur mantenendo in vita la stessa coalizione che aveva appoggiato il precedente esecutivo, ha imposto precise condizioni soprattutto con riferimento al programma.
L’assenza di un vice premier, del resto, è rivelatrice del carattere leaderistico di questo ministero. Il presidente della Repubblica ha esercitato certamente, nel momento in cui si è trattato di costruire la squadra di governo il suo potere di influenza, e forse anche di persuasione, ma non pare che sia andato oltre. E ciò risulta evidente dalla dichiarazione fatta dopo la nomina dei ministri, allorché ha spiegato che questo governo reca la «forte impronta di Renzi».
Su un punto Napolitano sarà certo intransigente: quello che riguarda l’urgenza di alcune riforme a cominciare da quella elettorale. Si tratta di un preciso impegno assunto dai partiti nel momento in cui è stato chiesto a Napolitano di accettare la rielezione. Se esso dovesse venire meno non c’è alcuna ragione perché egli rimanga al suo posto.
La seconda novità è rappresentata dal carattere politico di questo esecutivo, ribadito anche in sede di dichiarazioni programmatiche, allorché Renzi ha parlato più da leader politico che da premier. La sua forte leadership non dovrebbe, tuttavia, mortificare il ruolo dei partiti dai quali dipende la stabilità del governo. Da questo punto di vista, vi sono precisi segnali in ordine ad una ritrovata capacità di iniziativa politica dei partiti, a cominciare dal Pd, che ha interpretato in modo letterale il principio secondo cui il leader del maggiore partito della coalizione non può non essere capo del governo, sia che si vada alle elezioni nelle quali il leader si presenta come candidato premier, sia che l’incarico di formare il governo venga dato nel corso della legislatura.
E’ questa una delle caratteristiche che connotano il premierato inglese, il cosiddetto modello Westminster. Non si può parlare ancora di una possibile evoluzione del nostro sistema politico in questa direzione, e però le tendenze che vanno emergendo fanno ritenere che da adesso il leader del partito, almeno in casa Pd, sarà il candidato premier alle elezioni, e quindi a lui spetterà se vince l’incarico di formare il governo, se perde il compito di guidare l’opposizione. Nel caso in cui dovessero insorgere delle difficoltà per formare il governo o dovesse verificarsi una crisi di governo la soluzione obbligata, in questo contesto, non può che essere quella di restituire la parola agli elettori. Non dovrebbe più accadere, fintantoché Renzi avrà la guida del Pd, ciò che è accaduto a Bersani dopo le elezioni del febbraio 2013, il quale, accertata l’impossibilità di formare il governo, ha dovuto passare la mano al vicesegretario del pd.
Questo governo è un governo politico, quindi con pochi tecnici, soltanto tre; due di essi, poi, sono estranei ai partiti ma non del tutto, considerati gli interessi di categoria che rappresentano. La politica pare avere vinto. C’è da sperare che i partiti, pur non perdendo il carattere leaderistico che è proprio di partiti non ideologici, si organizzino adesso in modo tale da diventare un vero bene pubblico e non consorterie chiuse che non danno conto a nessuno del loro operato. I partiti devono cambiare, e non solo grazie ad una coraggiosa opera di autoriforma, ma soprattutto attraverso una disciplina di carattere obbligatorio, cioè contenuta in una legge, che regoli gli aspetti salienti del loro funzionamento.
Renzi ha sicuramente rispettato, al di là dello stile decisionista di cui dà prova, il ruolo dei partiti nella composizione del governo dando addirittura “evidenza di governo” anche alle correnti, persino quella più piccola che fa capo a Civati. Ha puntato molto sugli elementi di novità che non potevano non caratterizzare il suo governo, senza però mettere a rischio la tenuta della coalizione. Per quanto riguarda il ricambio generazionale e la parità di genere, Renzi ha senz’altro mantenuto le promesse che aveva fatto.
La terza novità deriva dal fatto che questo governo può contare su un atteggiamento di benevolenza da parte dell’opposizione berlusconiana. Potrebbe addirittura accadere che su certe scelte risulti più collaborativa la parte del centrodestra che sta fuori dalla maggioranza che quella che ne sta dentro. Questa è la più importante delle novità che si registrano con l’avvento al potere di Matteo Renzi. Si passa da una Repubblica caratterizzata da una concezione brutale del bipolarismo, inteso come conflitto permanente tra due schieramenti, ad un rapporto più civile tra maggioranza e opposizione.
Ciò nel ventennio della Seconda Repubblica ha prodotto le infelici esperienze delle riforme fatte male e delle riforme proclamate ma mai varate.
Renzi, con le dichiarazioni rese subito dopo avere ricevuto l’incarico, ha spiegato che bisogna distinguere arco costituzionale e maggioranza di governo, considerato che le riforme istituzionali hanno bisogno di un largo consenso parlamentare. E si è mosso di conseguenza, traghettando oggettivamente il Paese verso un’altra Repubblica, convinto di dovere dare vita ad un vitale bipolarismo, diverso da quello rissoso, muscolare ed inconcludente della Seconda Repubblica. La rissa adesso dovrebbe essere finita.
Il nuovo bipolarismo è chiamato a dare buona prova di sé nei prossimi mesi quando si tratterà di votare in Parlamento le riforme istituzionali. Finora i due leader del centrodestra e del centrosinistra hanno giocato una partita che si conclude con il successo di entrambi. Renzi ha ottenuto dall’opposizione un’apertura di credito che nessun altro premier prima di lui era riuscito ad ottenere; il “pregiudicato” Berlusconi viene trattato da statista nel momento in cui lo si riconosce come interlocutore indispensabile per fare le riforme. Tutto ciò, senza che siano alle viste degli inciuci. Anzi. Le riforme che hanno concordato Renzi e Berlusconi sembrano escludere ogni forma di larga intesa in prospettiva.
Presentandosi in Parlamento, Renzi ha parlato di una nuova Italia possibile, sol che si sappiano valorizzare le straordinarie risorse di cui il paese dispone. Ha chiesto alla sua composita maggioranza, ma anche all’opposizione, e soprattutto al Paese di investire su se stesso. Le riforme strutturali che ha indicato non consentono, considerati i tempi entro i quali le si vuole approvare, estenuanti conflitti con l’opposizione di centrodestra. Tenuto conto di ciò, il premier dovrà dare prova da adesso di grande equilibrio, sapendo coniugare prudenza e determinazione, per far sì che l’accordo negoziato con Berlusconi regga di fronte alle prevedibili incursioni di quanti cercheranno di far saltare le riforme per arrivare alle elezioni al più presto possibile.
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