La storia è di quelle davvero straordinarie, già prima ancora di raccontare il successo di una piccola impresa che nel cuore della Sicilia nasce e si sviluppa per passione. Un’impresa familiare, naturalmente, perché il tessuto che regge e che si afferma da queste parti in controtendenza con la crisi, maledetta crisi globale, punta e si fonda, innanzitutto, sulla famiglia.
Che può portare lo stesso cognome, oppure fondere piccoli gruppi, coesi e sodali, ispirati dalla stessa voglia di fare, di realizzare, persino di stupire.
E stupirsi facendo cose belle.
Qui, nelle campagna di Gagliano Castelferrato, è di una famiglia vera e propria che raccontiamo la storia, la famiglia Fiorenza. Tutto comincia dalla passione per la birra fatta in casa, coltivata dai fratelli Tony e Dino, che si divertono, studiano, pescano nella storia e, forse, persino nella preistoria o quasi per dedicarsi alla produzione della birra artigianale.
Ma non si fermano all’esperimento, non a quei primi 20 litri prodotti poco meno di dieci anni fa. A quel punto coinvolgono nell’avventura due donne di casa che hanno dimostrato attitudine all’home brewing. Sono Anna, moglie di Dino e la nipote Diana. Le “ragazze”, come le chiamano scherzando nel gruppo, riversano nell’operazione le loro conoscenze che diventano preziosi consigli. E l’impresa di ieri diventa quella di oggi. E di domani.
Ma perché la storia è tanto speciale? Che cosa ha di straordinario questa birra artigianale che nasce nelle campagne di Gagliano Castelferrato? Che cosa?
Praticamente tutto. A cominciare dal grano da cui nasce che è un grano antico, ma proprio antico antico. Come raccontano Anna e Diana. «Tutto inizia, effettivamente, dalla scelta rigorosa della selezione delle materie prime per fare una buona birra. Da qui l’intuizione che abbiamo avuto di cercare un prodotto che fosse davvero figlio della nostra cultura, e che ci avvicinasse quanto più al nostro territorio. E dopo anni di ricerche e prove ci siamo riusciti. Abbiamo provato a birrificare con un grano che ha più di 2500 anni di storia»
Il grano in questione si chiama Timilia e per chi in questi tempi vice la scoperta del buon mangiare (che viene quasi sempre dalla tradizione), non è, forse, un illustre sconosciuto. Ma per la famiglia Fiorenza la scoperta della Timilia è stata un po’ come scoprire l’America. E non devastarne, però, le abitudini, le tradizioni, i riti degli indigeni, ma studiare, capire, valorizzare il significato del passato declinato al futuro.
«E’ un grano dalle proprietà straordinarie – dice Dino – già usato dagli antichi Romani nella nostra Isola che per la storia dell’umanità resterà sempre il “granaio del Mediterraneo”. Perché qui sole, temperatura mite e l’amore per la terra hanno donato all’intero bacino dell’Impero grano di tutte le tipologie conosciute con il più alto indice di produttività e bontà».
Ma Dino Fiorenza, che si esalta e un poco si commuove pure mentre racconta la storia, ci spiega anche che la Timilia, sarebbe stata una varietà usata addirittura dai Sumeri. E che a lei si deve sopravvivenza di intere famiglie, al punto da essersi guadagna l’appellativo di “grano salva vita”.
«Perché – dice ancora Dino – contrariamente alle altre coltivazioni la Timilia è un grano tardivo, si può piantare anche a marzo per già essere pronto per la raccolta a giugno. Per questo la Timilia tardiva ha consentito per centinaia di anni agli agricoltori, in caso di “male annata” di raccolto, di sopravvivere; l’unico ostacolo per la sua produzione in scala era ed è rimasta la bassa resa. Una spiga di Timilia produce tra i 20/30 chicchi contrariamente alle altre spighe che ne danno fino a 120. Sarà questo l’elemento principale che indurrà la moderna tecnologia alimentare a non “investire” sulla Timilia».
E meno male, bisogna aggiungere, perché anche qui è capitato che dove non è arrivato il cosiddetto progresso, la natura ha potuto mantenere le condizioni ideali per salvare quel prodotto. Ma dalla Timilia alla birra come si arriva? Racconta Anna: «Siamo qui al centro della Sicilia, a Gagliano Castelferrato dove Federico II di Svevia risiedeva durante i suoi spostamenti nell’Isola e abbiamo davanti il paesaggio mozzafiato dell’Etna oggi patrimonio mondiale dell’umanità. In questa nostra proprietà, che fu del Barone Calabrese-Ferreri, la nostra azienda coltiva con l’amore e la cura che si dedica ad una terra generosa, il grano di Timilia, oggi riconosciuto come patrimonio genetico della Sicilia».
«E’ in un contesto così assolutamente naturale – aggiunge ancora Diana – produciamo birra artigianale di alta qualità con metodi tradizionali, dove la gelosa custodia di prodotti antichi ed inalterati del territorio, si incontrano a Catania con la tecnologia di uno stabilimento moderno ed efficiente che rispetta rigorosamente le norme nel campo della tutela alla salute e dell’ambiente. Temi affrontati con grande attenzione dalla nostra azienda attenta al valore etico da tramandare come modello».
L’impianto dove si produce Timilì è il più grande della Sicilia. I Fiorenza, partiti con quei 20 litri, oggi dalle poche e preziose spighe della Timilia riescono a tirar fuori qualcosa come cento ettolitri di birra. Che per Gagliano, e per la Sicilia, è già un fiore all’occhiello. Perché a parte essere già prodotto venduto in enoteche e negozi specializzati, ed essere distribuita nei migliori alberghi e ristoranti, è anche cominciato un export di tutto rispetto.
«Ci chiedono la nostra birra – dicono i Fiorenza – dal Regno Unito, dagli Usa e abbiamo anche aperto un canale che potrebbe portarci ad esportare presto in Giappone. Del resto Timilì è esattamente un prodotto che rispetta al 100% il principio del “Born in Sicily”. Dunque si inserisce in un quadro virtuoso, produttivo e di sviluppo per la Sicilia».
Andrea Lodato La Sicilia
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