Le sue denunce, il suo amore per la Sicilia.
Era la sera del 5 gennaio del 1984 e Pippo Fava – giornalista e scrittore, voce scomoda di una città e di una regione troppo spesso distratte di fronte agli intrecci tra potere mafioso, certa imprenditoria e colletti bianchi – aveva appena parcheggiato davanti al Teatro Verga, nell’allora via dello Stadio.
Qui Fava attendeva, a bordo della sua Renault 5, l’adorata nipote, impegnata in una parte ne “L’ultima violenza”, il drammatico atto di denuncia scritto dallo stesso Fava. L’allora direttore de “I siciliani” fu raggiunto da un killer giovane, ma allo stesso tempo esperto e spietato. Quello che, parecchi anni dopo, sarebbe anche diventato un collaboratore di giustizia: Maurizo Avola. Uno, due, tre colpi, poi la fuga.
Avola per quel barbaro omicidio fu condannato a nove anni, con il rito alternativo del patteggiamento. Condanna definitiva all’ergastolo, invece, per il capomafia Benedetto Santapaola e suo nipote e alter ego Aldo Ercolano, ritenuti rispettivamente il mandante e l’organizzatore dell’omicidio. La sentenza fu emessa dalla seconda sezione straordinaria della Corte d’assise d’appello di Catania e confermata nel novemvre del 2003 dalla quinta sezione della Corte di Cassazione, che respinse i ricorsi del Procuratore generale di Catania e della difesa degli imputati. Per l’omicidio Fava nel corso delle indagini erano stati arrestati, salvo poi essere assolti, anche Vincenzo Santapaola, figlio di Salvatore (fratello del capomafia), Marcello D’Agata e Francesco Giammuso.
L’uccisione di Fava segnò uno spartiacque nella storia di Catania. Perché – anche se non nell’immediato, quando si ipotizzarono persino piste passionali per spiegare quell’efferato omicidio – fece prendere coscienza a tutti della presenza mafiosa in città. Trent’anni dopo molte cose sono cambiate.
Intatto è rimasto nella memoria dei catanesi l’impegno di quel giornalista coraggioso, innamorato della propria terra che aveva già raccontato negli Anni Sessanta proprio su “La Sicilia”, la sua palestra professionale insieme con la redazione di “Espresso Sera”, prima di cercare e trovare nuovi stimoli e terreni di sfida al “Giornale del Sud” e a “I Siciliani”, dalle cui colonne continuò a denunciare il malaffare. Per questo fu ucciso, per questo lo ricordiamo: con i suoi scritti, con il racconto di chi lavorò al suo fianco, con l’analisi di chi ha seguito il suo lavoro.
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