«Sin dai primi anni ‘80 correva voce dentro Cosa nostra che Bernardo Provenzano aveva rapporti con le forze dell’ordine e che godesse della loro protezione. Totò Riina fu venduto e la mancata perquisizione di casa sua rientrava nei patti. Credo che parte dei documenti presi subito dopo il suo arresto siano finiti nelle mani di Matteo Messina Denaro».
A parlare dell’altra faccia della mafia – quella sempre in cerca di contatti con “sbirri”, politici e imprenditori – è il boss pentito Antonino Giuffrè, l’ex braccio destro di “Binnu u tratturi”, teste d’accusa al processo sulla trattativa Stato-mafia.
Ieri ha risposto alle domande del contro interrogatorio dell’avvocato Basilio Milio, che difende i generali Mori e Subranni. Di quest’ultimo, dice «di non avere mai sentito il nome dentro Cosa nostra».
Quanto ai documenti prelevati dai “picciotti” nel covo di Riina e consegnati a Matteo Messina Denaro, «la mia – sostiene Giuffré – è un’intuizione più che una fonte. La consegna l’ho data per probabile. Anche Provenzano mi ha detto più volte che a casa di Riina c’erano diversi documenti. So che Riina e Provenzano si scrivevano. Inoltre, Provenzano asseriva che Matteo Messina Denaro era uno dei soggetti più fidati e vicini a Riina. Insomma l’ho intuito da un complesso di piccole cose. Ma io i documenti non li ho visti».
Giuffré ritiene di essere stato venduto anche lui da Provenzano. E ricorda, ancora con emozione, che quando decise di pentirsi, un agente del Gom, il nucleo speciale della polizia penitenziaria, «mi offrì per due volte un sacchetto di plastica. “Mettilo sulla testa” mi disse. Dovevo suicidarmi. Per parlare con il procuratore Pietro Grasso, per evitare il Gom mi rivolsi direttamente alla direttrice del carcere».
Cosa nostra temeva l’inchiesta del Ros “Mafia & appalti” (archiviata il 15 agosto 1992 su richiesta della Procura di Palermo) più della sentenza del maxiprocesso. «Perché – spiega Giuffré – era estremamente destabilizzante.
Gli appalti determinano infatti i rapporti e gli agganci di Cosa nostra con politici, imprenditori e altri settori dello Stato. Al procuratore Giammanco, che era una persona discussa, da Bagheria gli consigliarono di mettere i bastoni tra le ruote ai giudici Falcone e Borsellino.
L’inchiesta fu annacquata. L’unica persona in grado di leggere il capitolo dell’uccisione di Falcone – ricorda “Nino manuzza” – era Borsellino. Entrambi erano nemici giurati di Cosa nostra e per questo erano nella lista della resa dei conti. Ma Borsellino fu ucciso anche perché stava diventando più pericoloso di Falcone sul fronte dell’inchiesta su mafia e appalti».
G. P. lasicilia
Sicilia Notizie Cronaca Attualità News Politica Economia Lavoro Enogastronomia Sport Viaggi