Contro lo sfascismo che minaccia dalle fondamenta la società servono iniezioni di rigore e correttezza, con dosi da cavallo.
La cura è urgentissima e va prescritta a tutti. Gli untori abbondano espesso sono indisturbati.
Eppure è netta la percezione di una vera e propria pandemia della peste del malaffare e dell’indolenza.
In Italia sulle rovine dell’ultimo dopoguerra si agì per la ricostruzione anche morale con l’apporto di grandi personalità della politica, della cultura, dell’imprenditoria.
Se gli aiuti americani del Piano Marshall favorirono la sua rinascita, l’Italia, già prima dei Trattati di Roma, espresse eccellenti energie positive. Alcide De Gasperi per la sfera cattolica e Palmiro Togliatti per quella comunista operarono al meglio pur fra gli alti e bassi della guerra fredda.
Non sono da sottovalutare altri protagonisti di ottimo livello del popolarismo sturziano e della nascente Dc, del forte Pci e la sinistra socialista di Pietro Nenni, la socialdemocrazia di Giuseppe Saragat, la spinta repubblicana di Ugo La Malfa, la proposta liberale di Giovanni Malagodi e ancora le sollecitazioni post fasciste di Giorgio Almirante e la mancata rassegnazione dei monarchici di Pietro Covelli e Achille Lauro. Non mancarono gli intrallazzi, mai tanti però quanti oggi. Austerità predicavano Luigi Einaudi e altri insigni economisti come lui compartecipi della vita pubblica. Nel secondo mezzo secolo scorso Giorgio La Pira (guarda un po’ sindaco di Firenze come adesso Matteo Renzi) dettava la linee della politica corretta e coraggiosa.
Che non furono tutte rose e fiori, parallelamente al boom e a un’intraprendente imprenditoria anche impegnata culturalmente (Fiat, Olivetti, Eni, ecc.) e alla crescita impetuosa del made in Italy esportato nel mondo, lo confermarono crisi a raffica, governi balneari, scandali sul refrain “mondo è stato e mondo sarà”, il grottesco tentativo di golpe di Junio Valerio Borghese, le deviazioni del Sifar.
Fra scandali e replicanti narcotizzati da corruzione e ingordigia, rimbambiti dal delirio di onnipotenza ingigantitodalla popolarità televisiva di filistei, scassinatori dei forzieri pubblici e in generale scassatori del sistema pubblico facevano argine molti intellettuali: Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, non per caso spesso ospitati a Torino da “La Stampa”, ovvero Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Federico Fellini, Renato Guttuso, Eduardo De Filippo e centinaia e centinaia di altri come più di recente su “La Sicilia” Giuseppe Giarrizzo.
Oggi? Mah!
Ci furono, proprio in nome del rigore, due fasi importanti dell’evoluzione italiana degli scorsi decenni con significative ripercussioni sulla realtà attuale.
Primo: le contestazioni dei sessantottini che pretesero decisivi cambi di passo a cominciare nelle scuole e nelle Università. Non senza eccessi (esami di gruppo, occupazioni di aule, professori alla gogna), ma con le richieste per la fine delle baronie e per un’istruzione sul serio a portata di tutti.
Secondo: la tangentopoli, che travolse, con Bettino Craxi, tante articolazioni del “sistema Italia” e, senza che però vi si riuscisse pienamente né senza errori, favorì l’azzeramento di ramificati interessi illeciti e di complicità. Il rigore fu allora – e lo è più che mai oggi – l’imperativo categorico che permise di sconfiggere le Brigate Rosse (non dovremo mai dimenticare il sacrificio di Aldo Moro e i non del tutto disvelati segreti dietro il rapimento e l’assassinio), di ridimensionare la massoneria deviata come la P2, di arrestare e condannare potenti boss di mafia, camorra e ‘ndrangheta.
Non il rigore da college o d’antiquariato sociale, della rigidità familiare che imponeva obbedienza e soffocava le aspirazioni in nome di un “ordine” non sempre legittimo e condivisibile. Oggi non c’è bisogno di rifarsi a Socrate e a Immanuel Kant per ispirarsi a codici di comportamento basati sull’invulnerabilità della correttezza o sulle motivazioni kantiane della ragion pura.
Piedi per terra e rigore li chiede peraltro la stragrande maggioranza della gente, specialmente l’italiano su tre che non vota o è indeciso.
Antonio Ravidà
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