A cura di Danilo Serra.
Forse in un periodo di «crisi» vale la pena riflettere e soffermarsi sull’origine di alcune pratiche oramai ritenute desuete o, paradossalmente, “abituali” e già in noi. Come poter pensare la «politica» abitando il XXI secolo? Che ruolo attribuire alla «discussione pubblica» abituati, come siamo, ad assistere a spettacoli urlanti e privi di qualsiasi contenuto logico pensante?
Proiettiamoci mentalmente nella Grecia classica. È lì che (il) tutto ha origine; lì la politica prende forma, inizia il suo cammino esistenziale. «Politica» è un termine che rimanda, etimologicamente, al greco polis, quest’ultimo tradotto soprattutto con «città-stato». La «città-stato» greca si sviluppa tra il VII e VI secolo a.C. La sua nascita è il risultato di un preciso evento storico: la crisi delle forme tradizionali della sovranità. Con l’affermazione della polis cambia, dunque, il modo di concepire il potere. Esso non è più inteso come «patrimonio» nelle mani delle potenti famiglie aristocratiche ma, idealmente, «potere» assume un significato universale, plurimo, pubblico: il potere si mette in moto in quello che è il centro simbolico della città, l’agora, lo spazio pubblico comunitario. Qui ristagna la grande conquista della Grecia classica, la discussione politica, ciò che in seguito verrà definito, nel linguaggio della “filosofia politica”, «potere democratico», potere del confronto. Per fare un esempio concreto, ad Atene (modello classico della polis democratica) la sovranità politica era rappresentata dall’Assemblea, l’ekklesia, aperta a tutti i cittadini maschi e liberi (ateniesi) aventi più di 18 anni. Nelle decisioni politiche (legislative) vale il principio maggioritario: la maggioranza vince. L’amministrazione veniva esercitata dal consiglio dei 500, boule, le cui cariche politiche venivano attribuite per sorteggio. Si trattava, sia chiaro, di una forma embrionale di democrazia diretta e partecipativa, priva, a differenza della modernità politica, di un vero e proprio apparato burocratico statale.
Tenendo conto di questa storica prospettiva, siamo in grado di rispondere alla domanda “che cosa significa «politica»?” prendendo gradualmente familiarità con i seguenti, vitali, concetti: dibattito, partecipazione, confronto di idee ed argomentazioni. Noi, uomini del XXI secolo, viventi della banalità, non possiamo che sorridere dinanzi allo sviluppo sorgivo della storia, reputando «astratta» quella forma classica e comunitaria della «politica», lontana, troppo lontana, dalle nostre contemporanee categorie e dai nostri predefiniti schemi pensanti. Noi, uomini del XXI secolo, rappresentati e gestiti dall’ignoranza, abbiamo imparato a fare a meno della «politica», non provando più interesse per essa, abbandonandoci alle singole energie dell’Io. Il dibattito politico si è impoverito divenendo “cosa silenziosa”. Il nichilismo pervade le nostre membra. Del resto, il termine «nichilismo» ha dentro di sé la radice latina nihil traducibile con “niente”, “nulla”. E «politica» è per noi “niente”, il nulla inteso come il non essere più presente. Vaghiamo come nomadi solitari senza una patria, senza un terreno, privati di uno spazio comune, lo «spazio pubblico della politica».