Da tempo ormai la “questione meridionale” sembra essersi trasformata in un problema di spesa dei fondi europei. La crisi spegne i sogni, è stato scritto, ed anche lo storico dualismo Nord-Sud sembra lasciare il campo all’«ognun per sé» (G. Noci, Due politiche diverse per Nord e Sud, Corriere della Sera, 31 maggio 2013).
Oggi, qualcuno (G. Noci), per eliminare diatribe (il Nord che vuole liberarsi del Sud) e lamentele (il Sud messo in ginocchio dalla riduzione di flussi di spesa pubblica) prova a proporre un “dualismo” in termini di politiche economiche nazionali.
Al Nord le “quattro A” (Automazione, Agro-Alimentare, Arredo, Abbigliamento) favorendo la cooperazione o l’aggregazione di imprese, rafforzando il capitale umano con una formazione universitaria d’eccellenza e creando le condizioni affinché dal sistema bancario si assecondino crescita e innovazione delle imprese.
Al Sud? Agro-alimentare e turismo, concepiti entrambi in una chiave esperienziale, secondo cui territorio e prodotti nel primo caso, e beni culturali e risorse paesaggistiche, nel secondo, si rafforzano a vicenda per la definizione di un mix di offerta attrattivo.
Due ricette, insomma, con le appendici esplicite ed implicite: gabbie salariali, diversità nei sistemi formativi, rinunzia del Sud ad un sistema industriale. Non manca, per il Sud, il solito accenno al suo naturale essere piattaforma dello sviluppo verso l’Africa, un “mantra” che sentiamo ripetere da mezzo secolo insensibile alle dinamiche geo-politiche, alla trasformazione del sistema degli scambi e dei trasporti, alla totale mancanza di valide infrastrutture di collegamento. Ma il richiamo all’Africa per il Sud è un po’ freudiano e come tale dobbiamo intenderlo.
Va detto che le “due ricette” sono state più volte oggetto di analisi nei seminari ristretti. Se oggi vengono alla luce questo potrebbe indicarne una convergenza a livello politico.
Qualche risposta c’è stata. Intanto l’agricoltura è un settore essenziale dell’economia del Centro-Nord così come è fuor di luogo parlare di un Sud senza fabbriche sol che si pensi al caso dell’Ilva a Taranto. Guai a cadere nel rischio della retorica sulla deindustrializzazione del Mezzogiorno pur ritenendo che l’agro-industria ed il turismo ne rappresentano, soprattutto se declinati con la valorizzazione dei profili culturali, fattori di sviluppo considerevoli. Ma pur sempre ci viene ricordato (A. Laterza, Corriere della Sera, 3 giugno 2013) la manifattura è la fonte principale dell’innovazione, dell’export, del terziario avanzato. E senza manifattura il Sud non ha futuro. E’ un’economia debole quella che si regge sui pastori e sui bagnini.
Come si inserisce questo dibattito nelle progettualità che riguardano l’economia siciliana? Purtroppo, ma le giustificazione sul punto sembrano più che valide, queste progettualità vengono oscurate da un’economia dell’emergenza. Centrata sugli equilibri di bilancio, l’azzeramento del deficit nel settore sanitario, il recupero di risorse per fronteggiare il problema del precariato visibile ed occulto.
Un’osservazione. Le progettualità delle quali parliamo però potrebbero emergere da altri soggetti produttivi anch’essi coinvolti nell’emergenza ma pur sempre in grado di guardare in avanti senza necessariamente tirare la giacchetta (il riferimento è ad un simpatico siparietto tra Crocetta e Montante) ad alcuno. Comunque, un intervento autorevole sulla filosofia delle “due ricette” non guasterebbe. L’immagine della Regione nasce dalle sue pratiche di cambiamento, di affermazione della legalità, dall’imposizione di regole su aree di discrezionalità ma anche, ci permettiamo di annotare, dalla partecipazione, attraverso le sue articolazioni, ai dibattiti che riguardano scelte future a livello nazionale che potrebbero condizionare il suo futuro.
E’ come se in Sicilia in questo momento sapessimo bene ciò che non vogliamo ed a mala pena ciò che vogliamo. Ignorando quello che passa sulla nostra testa perché intenti a guardare la pagliuzza e non la luna che la pagliuzza indica.
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