Una provocazione inutile e pericolosa. Tale, non a torto, è apparso ai più – e per questo è stato subito ritirato, fra mille polemiche insorte – il ddl del senatore Guido Compagna sulla materia oltremodo sensibile della “tipizzazione” legislativa del concorso esterno nell’associazione.
Iniziativa provocatoria, per la concomitanza con l’anniversario della strage di Capaci e l’imminente avvio dell’esame, proprio al Senato, del ddl anticorruzione ma soprattutto iniziativa pericolosa per la coesione della precaria maggioranza di governo. In ogni caso, un’alzata d’ingegno inutile dato che – come realisticamente si è osservato – il ddl, stando almeno ai contenuti che esibisce, non avrebbe avuto alcuna chance di successo. Fin qui la politica.
E tuttavia, al di là dello scontato allarme per una paventata riduzione degli strumenti di contrasto alla “zona grigia” connivente con l’organizzazione mafiosa o per le possibili sottostanti finalità di aiuto a personaggi eccellenti attualmente sotto processo per concorso esterno (cui la futuribile legge più favorevole si applicherebbe) resta il fatto che, fin quando la materia non sarà disciplinata dalla legge, questa parte importante dell’azione giudiziaria resterà affidata a un’incertezza intollerabile.
Non sono in questione gli sforzi, anche lodevoli, della giurisprudenza nel disegnare confini alla figura (appunto il concorso esterno) che essa stessa è stata costretta in qualche modo a creare. E’ in questione, piuttosto, l’esigenza di ogni persona di conoscere, almeno con adeguata approssimazione, ciò che è penalmente lecito e ciò che non lo è. Lo impone il principio di legalità dei reati e delle pene, il cui rispetto prevede non solo che gli uni e le altre siano stabiliti in anticipo dal Parlamento (ad evitare arbitri illiberali dell’Esecutivo) ma anche che sia lo stesso legislatore a descrivere precisamente e tassativamente quali comportamenti siano meritevoli di pena (ad evitare che i confini dell’illecito penale, pur nel rispetto dell’attività di interpretazione della legge, siano alla fine disegnati non da quest’ultima ma dagli stessi giudici).
Si potrebbe obiettare che si tratta di astratti principi di marca illuministica, che tutti conoscono e considerano sacrosanti, ma che ha poco senso richiamare senza confrontarli con la drammatica emergenza della criminalità organizzata e, soprattutto, delle sue connivenze. Ma questa obiezione coglierebbe nel segno soltanto se, a chi richiama questi principi, non fosse presente e ben nota la grande difficoltà che effettivamente si incontra nel “tipizzare”, cioè nel descrivere compiutamente e chiaramente i comportamenti di agevolazione e connivenza con la criminalità organizzata di stampo mafioso che caratterizzano l’area non a caso detta “grigia”. E’ una difficoltà che per molto tempo ha lasciato nell’ombra e impuniti politici, imprenditori, faccendieri, funzionari collusi ma che la controversa figura del concorso esterno, come tale, non riesce a risolvere, se non a rischio di “sparare nel mucchio” (un rischio che si corre a maggior ragione nella fase delle indagini preliminari, nella quale, non essendo formulata nessuna accusa, lo spettro investigativo è fisiologicamente più ampio).
Sono noti i passaggi della controversia giuridica sul concorso esterno. Dapprima si riteneva (ma vi è chi ancora, con buone ragioni, lo ritiene) che sia di per sé contraddittorio concepire il concorso in un reato che è già associativo. Chi aiuta senza essere associato, non concorre nel reato, che richiede l’essere associati. Per superare questo scoglio si è quindi distinto tra il partecipe all’associazione e il concorrente esterno. Distinzione controversa e tutta giurisprudenziale, che si è avvalsa soprattutto dei vasti e generici margini consentiti dalle norme generali del codice penale sul concorso di persone nel reato. Senonché, concepito il concorso esterno, è diventato difficilissimo distinguere questa figura dal meno grave reato di favoreggiamento, di per sé destinato proprio a colpire chi, senza concorrere nel reato, aiuta o agevola l’autore o gli autori di esso.
Distinzione però cruciale: mentre al concorrente, anche se esterno, può essere applicata una pena fino a 12 anni, ben più basse sono le pene previste per il favoreggiamento. Anche un favoreggiamento o un’agevolazione specificamente prevista per l’aiuto all’associazione mafiosa non potrebbe che avere un trattamento distinto e meno gravoso. Ma proprio al riguardo si pongono delicati quesiti, che magari meritano risposta più calibrata di quella fornita dal ddl appena abortito: anche il favoreggiamento e l’agevolazione alla mafia vanno definiti con chiarezza (sia rispetto all’associazione, sia, sul versante opposto, rispetto ai comportamenti del tutto leciti) altrimenti si mancherebbe l’obiettivo di garanzia cui mira il superamento del concorso esterno. Inoltre, andrebbe evitato di fare del favoreggiamento o dell’agevolazione alla mafia figure di reato per le quali non siano fruibili i più importanti mezzi di ricerca della prova utilizzati nelle inchieste di mafia.
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