Ancora un calo del Pil, il settimo consecutivo registrato nel primo trimestre di quest’anno. E’ un record, cioè la striscia negativa più lunga mai registrata in Italia.
La recessione, dunque, non si ferma, anzi accelera, trascinando al ribasso anche l’occupazione. E’ una vera croce quella che ci stiamo portando addosso. Una croce che pesa sì sui giovani, ma questi hanno la fortuna (almeno alcuni di loro) di avere un genitore, un nonno o un altro parente che può condividere la propria pensione con il ragazzo disoccupato.
Ma fino a quando? Se i ragazzi continuano ad essere disoccupati, se la Cassa integrazione rimane l’ultimo vagone a cui si aggrappano i lavoratori alla vigilia del licenziamento, allora diminuiranno sensibilmente i versamenti all’Inps da parte di chi un posto di lavoro continua ad averlo, magari con lo stipendio decurtato perché l’azienda ha dichiarato lo stato di crisi. Gli importi delle pensioni sono rimasti invariati negli ultimi dieci anni, ma il costo della vita è aumentato, tanto che sono diminuiti gli acquisti di beni di prima necessità: altro che la compravendita delle case, che pure è un segnale di grave pericolo per l’economia del paese. E allora cosa aspettarsi nei mesi, negli anni a venire?
Intanto l’Inps potrà continuare a pagare le pensioni e le varie Cig, peraltro portandosi addosso il fardello Inpdap?
Speriamo che, come sostiene il presidente di Confindustria, il declino non sia inarrestabile. Dice Squinzi che la ripresa «può arrivare soltanto dall’industria». Che deve dedicarsi in maniera preminente alle esportazioni. Il dato è di ieri: a marzo l’export è calato del 6% su base annua e l’import del 10,6%. L’ampiezza di queste flessioni per l’Istat sarebbe da imputare (in parte!) al diverso numero di giorni lavorativi, cioè 21 a marzo 2013 contro i 22 di marzo 2012.
In compenso, la bilancia commerciale nel mese di marzo mostra un saldo positivo per 3,2 miliardi, in netto miglioramento rispetto a 1,8 mld del 2012. Questo ultimo dato è confortante ma non decisivo per una vera ripresa. Le stesse aziende che, magari stringendo i denti, continuano a dare lavoro e a esportare, lo fanno sulla propria pelle, perché le banche continuano a negare affidamenti senza garanzie reali. Basti riflettere su un dato comunicato l’altro giorno dall’Abi e che riguarda gli impieghi nel mese di aprile, che registrano una contrazione complessiva del 2,12% annuo pari a 1,91 miliardi dopo il -1,94% di marzo. Sottolinea la stessa Abi che si tratta del nono ribasso consecutivo. Sempre in aprile si è confermato il trend negativo dei finanziamenti a famiglie e imprese.
E allora? Non è facile trovare il bandolo della matassa e capire cosa fare per aumentare le occasioni di lavoro. Non è facile neppure per il governo, già in tensione per la questione giustizia. Cerca una strada il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, che ha promesso di convocare le parti sociali «per avviare un dialogo per cercare di capire gli interventi a costo zero o costosi, che si ritengono efficaci».
Il governo sta facendo una «valutazione attenta delle risorse disponibili per il brevissimo termine», dice il ministro del Lavoro. Ma ha ricordato che «il problema è strutturale e non va solo affrontato rifinanziando lo strumento». Vedremo stasera cosa verrà fuori pur riconoscendo che il governo dovrà fare i conti con la dura realtà dei numeri. E quindi con Bruxelles.
Desidero affidare la chiusura di questo commento al sindaco di Termini Imerese, Burrafato, con uno stralcio dalla lettera che ha scritto al premier Enrico Letta, al presidente della Camera, Laura Boldrini, e a quello del Senato, Piero Grasso. «C’è il rischio concreto – scrive Burrafato – che la disperazione di questi giorni trasformi una crisi industriale e occupazionale in una crisi di sistema con ovvie e drammatiche ripercussioni sull’ordine pubblico. La nostra città (Termini, ndr) è davvero in ginocchio, non può più attendere e abbiamo bisogno di quelle risposte concrete che ad oggi non ci sono state ancora date».
Grazie Burrafato perché questo grido di dolore non riguarda solo Termini Imerese ma tutta la Sicilia. Ne tenga conto chi di dovere.
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