Il tema, apparentemente, sembra riservato solo agli addetti ai lavori. Ma, in realtà, riguarda, a ben vedere, la nostra vita quotidiana e, ancor di più, le nostre aspettative per il futuro. Di cosa parliamo?
Da più tempo, la politica economica proposta dal governo Monti, e mai seriamente contestata nelle sue fondamenta, sostiene che la riduzione del deficit di bilancio e del debito pubblico sono premesse indispensabili per avviare un processo di crescita. Di fronte a questo “pensiero forte”, le critiche si sono sostanzialmente concentrate non tanto sulla validità delle premesse quanto sul fatto che, dopo aver dedicato misure di “lacrime e sangue” per osservarle, non ne fosse scaturita alcuna azione per lo sviluppo.
Gli addetti ai lavori, prima citati, sapevano che, alla base di questo “pensiero forte”, c’era un’ampia letteratura scientifica di sostegno, in particolare alcune ricerche che ne apparivano capisaldi. La prima aveva come autori due tra i più prestigiosi economisti a livello mondiale, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff dell’Università di Harvard. Nel 2010, sulla base di un’ampia comparazione storica, non solo si era appurato uno stretto rapporto tra livello del debito pubblico e crescita ma addirittura si era giunti a determinare una sorta di legge: quando il rapporto tra debito e Pil supera il 90% (giusto per un richiamo val la pena ricordare che in Italia questo parametro è nell’ordine del 130%) si apre la recessione, la diminuzione cioè del Pil. In media, storicamente, una contrazione dell’economia almeno dello 0,1%. Una formula “fortunata” che ha finora influenzato le politiche economiche dei diversi Paesi.
In realtà, non esiste alcun numero magico che fissi con precisione la soglia massima dell’indebitamento di un Paese; allo stesso modo anche la decisione di porre a suo tempo il livello massimo del deficit annuale del bilancio pubblico sul Pil non poggia su alcuna base teorica. La sostenibilità del debito pubblico dipende nei fatti da molti possibili fattori: tassi di interesse, tassi di crescita dell’economia, percentuale del debito detenuto da operatori esteri, regime dei cambi, disponibilità di asset con valore di mercato da utilizzare per riparare il debito e così via (vedi www. sbilanciamoci. it. del 22.04.2013).
Sul rapporto tra debito e crescita si era incentrato un altro studio, in qualche nodo complementare a quello di Reinhart e Rogoff. Alesina e Ardagna con un loro saggio avevano sottolineato a chiare lettere che solo l’austerità porta alla crescita. Ora, colpo di scena secondo una tradizione non insolita nel dibattito economico, un gruppo di economisti dell’Università del Massachussetts-Amherst ha rifatto alcuni conti e, sulla base della stessa serie storica sulla quale si erano cimentati Reinhart e Rogoff, arrivano a conclusioni simmetricamente opposte: in media, storicamente, i Paesi con un debito superiore al 90% non vanno in recessione ma al contrario crescono del 2,2%.
Perché parlavamo di colpo di scena? Di fronte alle critiche, Reinhart e Rogoff hanno ammesso errori di tabulazione ed hanno riconosciuto la mancata considerazione di alcuni dati.
Modificando la loro legge: il tasso di crescita, ad alti livelli di debito, dicono, è la metà del tasso di espansione che si registra a livelli più bassi di reddito. Siamo al buon senso, peraltro sotto attacco da parte di chi capovolge i termini del ragionamento come Krugman e la scuola keynesiana: è la basse crescita, si sostiene, a mettere in difficoltà il bilancio pubblico ed a fare aumentare il debito, non il contrario.
Alesina e Ardagna sono caduti, dal canto loro, se così può dirsi, colpiti da fuoco amico: quello del Fondo Monetario Internazionale. Quando guardano al disavanzo pubblico non distinguono tra i casi in cui il disavanzo si è ridotto per l’austerità (questa la loro ipotesi) o quelli in cui è sceso perché l’economia ha tirato di più.
Il Fondo Monetario Internazionale, cui non si può certo imputare mancanza di rigore e competenza, sembra, con uno studio, aver dato un colpo di piccone al “pensiero forte” dell'”austerità espansiva”: l’austerità, sostiene adesso (dopo aver rivisto tra l’altro alcuni parametri di stima (moltiplicatori) del suo modello) sotto forma di tagli alla spesa e aumenti di tasse contrae, invece, l’economia.
Avanza un nuovo pensiero: l’obiettivo del risanamento del bilancio può essere realizzato con ritmi più ridotti, rispetto a quelli finora previsti dall’Unità Europea dando spazio a manovre per ravvivare la domanda: si alimenta così una ripresa la quale a sua volta riduce i disavanzi di bilancio.
Un assist formidabile al governo italiano per rinegoziare alcuni accordi in sede europea. En attendant!
Mario Centorrino
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