Ieri: A trenta giorni dal voto (e con un Papa eletto in trenta ore) a Roma un governo non c’è ancora. Né se ne scorge l’ombra all’orizzonte.
Oggi: Poteva andare diversamente? I tre partiti maggiori (Pd, Pdl, M5S) hanno raccolto alle elezioni più o meno un quarto ciascuno dei consensi ma, a urne richiuse, si sono arroccati.
Bersani vuol liquidare Berlusconi con qualsiasi mezzo; Berlusconi vuole il Quirinale a ogni costo; Grillo aspetta che i due si annusino per tornare al voto e farne man bassa.
L’analisi del giornalista Giuseppe Testa, scritta per la testata giornalistica LaSicilia, riporta in maniera semplice ed argomentata ciò che sta avvenendo nel mondo politico italiano e ciò che potrebbe divenire da un eventuale governo precario.
Il tatticismo su cui ci si muove in queste ore ci regalano scenari politici poco gratificanti per chi, giustamante, è andato al voto con la speranza di avere una Nazione cambiata, in meglio, da quelle riforme vitali, necessarie ed urgenti. Purtroppo c’è chi gioca a mantenere intatta la propria sopravvivenza politica e, nello stesso tempo, a deligittimare in base alle scelte il proprio diretto avversario. Nel contempo si ha l’impressione che il terzo soggetto politico, volutamente isolatosi per questioni di “coerenza”, sembra pronto già da tempo ad urlare all'”inciucio”.
E’ chiaro: in queste condizioni, il tentativo del presidente pre-incaricato ha le gambe corte. A chi pone la questione della maggioranza in termini puramente aritmetici (i famosi 35-40 voti che l’eventuale monocolore Pd dovrebbe rastrellare al Senato) sfugge che la situazione è bloccata per ragioni squisitamente politiche. In qualunque democrazia matura, il governo sarebbe già fatto sotto specie di grande coalizione anti-crisi tra Pd e Pdl.
Non in Italia, però: dove la normale dialettica parlamentare, oramai da quasi vent’anni, risulta inquinata da un tycoon senza scrupoli che il centrosinistra lincia sui giornali e alla tv, ma non smette di blandire nelle segrete stanze del potere.
La qualcosa, in queste ore, si va puntualmente replicando. Dopo aver preso impavido una serie di schiaffi da Grillo (che non gli darà mai la fiducia), Bersani ha deciso di virare sensibilmente. E’ passato dal governo di minoranza a geometria variabile (di fatto, un governo tenuto in scacco dai “grillini”) al governo dell’astensione (del centrodestra) in cambio dell’installazione di un “tavolo delle riforme” dove Berlusconi siederebbe a capotavola.
Si può immaginare qualcosa di più andreottesco? Il governo delle astensioni fu una invenzione del Divo Giulio negli anni Settanta: è su questa invenzione che il segretario del Pd vuol gettare le basi del suo “governo del cambiamento”? E quanto sarà salato, a conti fatti, il prezzo da pagare al Pdl?
La verità è sotto gli occhi: la vittoria elettorale mutilata ha reso Bersani nel partito un dead man walkin’: politicamente, un morto che cammina. Se non riuscirà a varare un governo purchessia, sarà finito. Dovrà dare a Renzi lo spazio che alle primarie gli negò. Se, invece, riuscirà a farlo, il suo sarà un governo precario: costretto a rincorrere continuamente Grillo e potenzialmente esposto alle richieste-capestro del Pdl. Non se ne esce. Tanto più che anche al piano B di Napolitano, il lievitante “governo del presidente”, Travaglio ha bucato la ruota di scorta: quel Pietro Grasso che Grillo ha definito «l’unico procuratore antimafia che stima Berlusconi».
Insomma, in campagna elettorale ci si diceva di votare per il “cambiamento”.
Ma dov’è finito quel Governo che dovrebbe riformare, con leggi e provvedimenti, il nostro Paese ?
Tutti gli indizi, purtroppo, sembrano invece portare al voto anticipato. Purché presa nell’interesse del Paese, non è detto sarebbe la scelta peggiore.
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