Il dibattito elettorale può scomporsi in tre parti: promesse, polemiche, considerazioni critiche su provvedimenti in atto con relative proposte di modifica.
Inutile dire che, forse, è questa la parte più interessante del dibattito stesso anche se il “tecnicismo” che la connota finisce con il renderla meno attraente rispetto alle prime due, sotto il profilo dell’acquisizione del consenso. Proviamo ad affrontare un tema che s’inquadra appunto nella terza parte del dibattito, resistendo alla tentazione di esporlo in termini corretti dal punto di vista teorico ma poco consueti per il comune lettore.
In estrema sintesi si tratta di questo: le pubbliche amministrazione (Stato, Regioni, Enti Locali, Istituzioni sanitarie) hanno accumulato un debito nei confronti di fornitori di beni e servizi pari a circa 100 miliardi di euro. Giusto per dare una dimensione concreta della criticità accennata nel caso delle aziende sanitarie si scontano ritardi medi di pagamenti che si aggirano su un anno con punte di quattro. Si innescano così meccanismi di concorrenza tra i fornitori basati non sulla qualità dei prodotti ma sulla solidità finanziaria delle aziende (talvolta legata a forme di acquisizione illegale di liquidità).
Tutto questo si è finora tradotto in crisi gravissima oltre che per la sanità anche in altri settori (si pensi al caso dell’edilizia in Sicilia), con un forte aumento dei conti indiretti per la P. A. (visto che oggi il prezzo delle forniture sconta il ritardo temporale dei pagamenti) ma soprattutto nel crollo della fiducia tra amministrazione e cittadini, dato che, (come da più parti viene rimproverato) alla richiesta di fedeltà fiscale e alle severità delle sanzioni (si pensi all’aborrita Equitalia) non ha corrisposto un comportamento eguale negli obblighi del pubblico verso i privati.
Il governo Monti aveva affrontato il problema prevedendo una certificazione del debito da parte delle pubbliche amministrazioni cui sarebbe seguita la possibilità per le imprese creditrici di chiedere anticipazioni bancarie o compensazioni fiscali. Una soluzione però che si è rivelata inefficace: gli enti locali resistevano alla certificazione per la sua incidenza sul bilancio in relazione al patto di stabilità; le imprese erano riluttanti a rivolgersi alle banche per non vedere aumentare la loro esposizione nei confronti di queste ultime.
La scadenza elettorale, come dicevamo prima, ha stimolato sul punto varie proposte. L’ultima in ordine di tempo è quella del Pd basata su un’emissione “dedicata” di titoli del tesoro pari a dieci miliardi di euro l’anno per cinque anni con cui pagare subito – e in contanti – le aziende creditrici iniziando da quelle di minore dimensione. I vantaggi sono evidenti: rientrare dalla posizione creditizia consentirebbe alle imprese di liberare risorse per investimenti, creare occupazione, aumentare il livello di solvibilità con effetti positivi sulla capacità delle banche di erogare credito.
Diciamo subito che la proposta ricalca ipotesi avanzate da altre fonti (ragionava all’inizio del suo mandato su questa proposta, in versione siciliana, anche il Presidente della Regione Siciliana, Crocetta) ma non risolve i dubbi che la caratterizzavano: se vengono emessi titoli si aumenta il debito sovrano e quindi i rischi della sua sostenibilità con ricadute negative sui tassi di interesse. Insomma, tutto al contrario di quanto ci chiedono i “grandi” europei.
E’ pur vero che l’immissione di liquidità a favore delle imprese avrebbe un effetto espansivo sull’attività economica e quindi consentirebbe di pareggiare il maggior debito con un aumento del reddito nazionale. Ci risiamo. Ancora una volta parlando di guai italiani è necessario passare sotto le forche caudine del cosidetto “fiscal compact” deciso in sede europea, l’obbligo del pareggio di bilancio e della riduzione del debito.
Non è in lizza per la Presidenza del Consiglio, ma, se ci fosse, Keynes sicuramente appoggerebbe il pagamento immediato dei debiti. Se non altro per capire quale è l’indebitamento occulto dello Stato italiano o, detto in modo più banale, “di che morte dobbiamo morire”.
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