Nel dibattito elettorale, come era da attendersi, via via che ci si avvicina al giorno delle votazioni, fioriscono proposte per creare posti di lavoro nel contesto di un percorso di crescita economica che dovrebbe avviarsi.
Le varie forze politiche e sociali si rendono conto che l’occupazione rappresenta oggi forse il primo problema per le famiglie italiane, magari a pari merito con il peso fiscale, e quindi inseriscono ipotesi di intervento sul mercato del lavoro nei loro piani di comunicazione.
Una breve rassegna, non esaustiva delle proposte, permette di suddividerle in più tipologie: quelle che puntano sostanzialmente su un rilevante investimento pubblico come leva per creare posti di lavoro, quelle che invece ritengono che il lavoro possa accrescersi solo con sostanziosi aiuti alle imprese e riduzione del cosidetto cuneo fiscale. Una terza categoria di suggerimenti mira invece a creare percorsi più certi tra studio e lavoro oltre che incentivi all’imprenditorialità giovanile. Una quarta, anomala rispetto alle altre, mira a concedere un assegno ai disoccupati sotto forma di assegno di sopravvivenza per permettere loro di qualificarsi e quindi poter avere il tempo necessario per trovare un’occupazione.
La nostra, come si intuisce, è una classificazione grossolana ed, in certo senso, di comodo. Non c’è dubbio, infatti, che qualunque “policy” per creare occupazione dovrà necessariamente utilizzare più strumenti. Ma vediamo da vicino alcune idee-guida.
Monti ha promesso fondi (1,4 miliardi) da destinare ad un piano per il lavoro. La Confindustria, attraverso una manovra fiscale a favore delle imprese, e potenzialmente in grado di attirare nuovi investimenti, punta a creare dal 2013 al 2018 due milioni di posti di lavoro nel settore privato.
Dal canto suo, la CGIL propone un intervento straordinario per l’occupazione giovanile soprattutto nel Mezzogiorno da finalizzare in progetti di messa in sicurezza e bonifica del territorio, con una spesa di 15 – 20 miliardi annui per un ciclo triennale. Le risorse dovrebbero arrivare da una riforma organica del sistema fiscale basata sul recupero dell’evasione, l’allargamento della base imponibile, ed una maggiore progressività. L’obiettivo è creare un “decent work”, un lavoro “dignitoso, contrattualizzato, retribuito e qualificato”, grazie ad un piano di spesa capace di assicurare tre punti in più del Pil e di occupazione, dieci di investimenti, oltre tre di reddito e sopra i due di consensi. In sintesi: riportare il parametro della disoccupazione, oggi all’11%, al livello pre-crisi del 7%.
Passiamo al capitolo delle strategie fondate sull’iniziativa autonoma e su manovre del cuneo fiscale. Partiamo proprio da queste ultime: azzerare per due anni il cuneo contributivo (per datore di lavoro e lavoratore) a partire dai neo-assunti. Il costo della misura ammonterebbe, calcola l’istituto bancario Intesa S. Paolo, a 800 milioni includendo il maggior gettito IRPEF legato ai nuovi salari e sarebbe compatibile con la disciplina europea sugli aiuti di Stato. Altri (CENSIS) pensano ad una banca, con una dotazione iniziale di 100 miliardi, dedicata ai giovani tra i 18 ed i 39 anni che abbiano intenzione di avviare un’attività autonoma, uno studio professionale ovvero un’impresa. La legge che limita ad un euro il costo per la costituzione di una società si è finora limitata ad un effetto-annunzio. Costituita un’impresa, è necessario poi trovare i capitali per avviarla e, sotto questo profilo, potrebbe esser utile il suggerimento di estendere le agevolazioni previste per lo start-up anche all’artigianato evoluto e innovativo. Alle aziende, cioè, che usano le nuove tecnologie del manifatturiero, dal 3D printing al laser, fino alle macchine a controllo numerico miniaturizzate.
Nella nostra veloce rassegna, tocca citare una proposta dell’ex Ministro del Lavoro Tiziano Treu. Un sistema cioè che offra ai giovani, come in Nord Europa, una serie integrata di servizi per ridurre il tempo di inattività. I servizi dovrebbero consistere in formazione mirata, periodi di stage e assistenza all’avvio di attività mentre un ruolo chiave spetterebbe ai centri per l’impiego, tutti da rafforzare.
C’è, infine, l’ipotesi (Grillo) di creare una rete di sopravvivenza con un reddito di cittadinanza pari a mille euro per tre anni così da assicurare sostegno a chi perde il lavoro (tre milioni circa). I fondi necessari, stimati in 34,5 miliardi, andrebbero reperiti abolendo i rimborsi elettorali (per Grillo si risparmierebbero tre miliardi secondo la Corte dei Conti, invece, ogni anno i partiti ricevono complessivamente circa 100 milioni), cancellando le province (510 milioni all’anno), accorpando piccoli comuni (11,6 milioni -dati Anpci-), ed abolendo le missioni all’estero (1,4 miliardi). Dalla lotta all’evasione si potrebbero recuperare, (calcolando la cifra raggiunta ad oggi) oltre 12 miliardi. Il lettore attento si sarà accorto di una discrepanza: il reddito di cittadinanza costerebbe 34,5 miliardi ma i risparmi suggeriti da Grillo non superano la metà della cifra occorrente.
Andiamo a concludere.
Ci sono tre punti di debolezza in tutte le azioni velocemente riassunte, Intanto, il loro collocarsi in una prospettiva temporale non breve né tanto meno immediata. Lavoro si, ma da attendere. In secondo luogo non vi è, in quanto annotato, mai assoluta certezza sulle fonti di finanziamento. In terzo luogo, ogni azione citata ha alle sue spalle un’ipotesi di maggioranza politica coesa, modello che oggi francamente non si vede all’orizzonte.
Per non cedere al pessimismo, val la pena ricordare che oggi la questione sociale è una variabile indipendente, nel senso che l’attualità e l’urgenza che configura dovrebbe, se si vogliono evitare conflittualità incontenibili imporre interventi immediati determinando essa stessa la necessità di un accordo tra le forze politiche.
Direbbe De Gaulle: ho ascoltato i vostri punti di vista. Non vanno d’accordo con i miei. La decisione è presa all’unanimità.
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