Se c’è un dato evidente, in questi giorni di campagna elettorale, è la confusione. Idee, programmi, possibili alleanze …
Tutto appare vago e contraddittorio.
Non c’è più neanche quel simulacro del bipolarismo che, nelle ultime tornate elettorali, almeno suggeriva l’idea che si potesse scegliere sulla base di un “o al di qua o al di là”.
Aggiungeteci il contesto generale – la crisi, i conti pubblici a rischio, il fattore Europa -, e tutto diventa ancora più inafferrabile.
Ma c’è un altro dato che emerge potente, in una situazione del genere: il nostro bisogno. Di capire. Di non essere sopraffatti da questa confusione. Di trovare la via per offrire un contributo alla vita del Paese – al bene nostro e di tutti – che si davvero utile. Abbiamo bisogno di giudicare, per scegliere.
Banale, direte. Mica tanto. In molti, questo bisogno non lo prendono sul serio. Lo saltano. Arrendendosi alla disillusione (tutto inutile, sono tutti uguali, non cambierà mai nulla). O affidandosi a una reazione istintiva, che raramente va al di là di un voto di protesta dato quasi a caso, a simpatia! Oppure, ancora, imboccando una scorciatoia per chiudere la questione, magari attendendo indicazioni dal guru di turno o “ordini di scuderia” dalla realtà a cui si è legati: l’associazione, il sindacato … In tutti questi casi, è il contrario della lealtà con questo bisogno. Ed è una tentazione che viviamo di continuo.
E invece, appunto, abbiamo bisogno di capire. Ne ho bisogno io. E se questo io ha la grazia di appartenere a una comunità cristiana in cui la fede non è una rassegna di idee, ma un’esperienza pertinente alle esigenze della vita, il bisogno di capire porta a una domanda: ma la fede mi aiuta anche in questo? Può educarmi a maturare un giudizio politico? E come?
Ecco, la domanda che ci interessa è questa. E ci interessa prima e dentro il percorso che porterà ognuno di noi fra qualche giorno a decidere per chi votare. Prima, perché dice di quanto vale l’esperienza cristiana, appunto: se non mi è di aiuto in questo ambito, vuol dire che non regge davanti ai turbini della realtà. E dentro, perché non è una domanda astratta: l’aiuto deve entrare nel merito. Deve essere qualcosa che mi aiuta a capire questa circostanza. Senza pensare di poter dedurre in automatico dai contenuti della fede programmi politici, come conseguenze da premesse teoriche (anzi, diffidiamo della politica che pensa di identificarsi con la verità assoluta). Ma sollecitandomi ad usare appieno la ragione davanti alla complessità dei problemi. A mantenermi attaccati ai criteri più adeguati per giudicare. Fino a rischiare il mio voto. Sapendo che scelte diverse sono legittime, perché possono esserci tentativi di soluzione differenti davanti a problemi specifici; ma anche che, proprio per quei criteri, non tutte le scelte sono uguali.
È un lavoro concreto. Concretissimo. Perché la verifica che l’intelligenza della fede può diventare intelligenza della realtà la si compirà strada facendo. Accorgendoci di come l’esperienza cristiana ci aiuta a capire il lavoro e la crisi, la sussidiarietà e la famiglia, l’Europa e l’educazione, i valori non negoziabili e quelli, appunto, opinabili. Ed è un lavoro che sarà fatto di informazioni, di confronto, di domande. Passi che toccano ad ognuno. In cui potremmo accompagnarci l’un l’altro non delegando il proprio bisogno a nessuno.