«Posizione anomala del feto».
È questa la principale condizione che rende necessario un parto cesareo e che si verifica, in media, nell’8% delle gestanti. Ma se tale percentuale schizza, in alcune regioni, ad oltre il 50%, allora sorge il «sospetto» di un utilizzo «opportunistico» dell’intervento, che prevede una maggiore tariffa di rimborso per le strutture rispetto al parto naturale.
È partendo da tale considerazione che il ministero della Salute ha avviato un’indagine nazionale per verificare proprio l’appropriatezza del ricorso al cesareo.
Risultato: su circa 150mila primi cesarei l’anno in Italia (il 29% del totale dei parti, pari a circa mezzo milione), il 43% – quasi 1 su 2 – è ingiustificato.
Un fenomeno che interessa, in particolare, la Campania, ma anche Lazio, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia. Il ministero ha quindi attivato un controllo campionario sulle schede di dimissione ospedaliera (Sdo) per primo parto cesareo con diagnosi di posizione anomala del feto, per verificare se le informazioni contenute nelle Sdo corrispondessero alla documentazione in cartella clinica.
Il campione è stato di 3.273 cartelle distribuite in 78 strutture ospedaliere pubbliche e private accreditate. Le cartelle sono state acquisite dai Nas. Ad oggi sono state esaminate 1.117 cartelle, da 32 strutture di 19 regioni. Il dato che emerge, appunto, è che nel 43% delle cartelle esaminate «è rilevata una non corrispondenza con le informazioni nella Sdo».
A chiarire la situazione è lo stesso ministro Renato Balduzzi: «I dati sono molto preoccupanti – ha sottolineato presentando l’indagine – e ci vuole un intervento ulteriore. Ci sono comportamenti opportunistici su cui bisogna intervenire».
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