Guardando il calendario mi sono accorto che martedì prossimo è Natale!
Voi mi direte, hai scoperto l’acqua calda. No, dico io, perché in questi giorni si parla del calendario Maja, di venerdì 21 che tutto finisce, mentre ci dimentichiamo come sempre, che Martedì 25 tutto inizia, perché un bambino ancora una volta ci viene dato, nonostante a noi non ce ne freghi niente.
Si perché se Natale è la festa di un Bambino che nasce per noi, che sia il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo, quelli sono dettagli secondari perché, noi celebriamo la festa, ma il festeggiato lo lasciamo fuori.
E allora ho deciso di scrivere a san Giuseppe, alla Madonna e se mi riesce a Gesù Bambino per chiedergli come si sentono loro a essere montanti nei presepi delle nostre case, dove ancora questi ci sono, ma spesso rimanendo solo delle statuine senza nessun riscontro con la realtà che vivremo.
Mentre pensavo di scrivere, però ho ritrovato tra i miei libri tre lettere scritte da un personaggio, Tonino Bello, che nessuno forse o pochi conoscono, morto nel 1994, vescovo in Puglia, presidente della Pax Christi, che mentre le bombe cadevano in Bosnia lui era li con una carovana di pace di giovani.
Ve ne proporrò qualche passaggio in questi giorni perché ci aiuta a riflettere. Perché cristiani o non cristiani, cattolici o non cattolici, stranamente, Martedì tutti ci diremo Buon Natale, tutti ci riuniremo intorno a delle tavole imbandite, dove più. dove meno, ma imbandite. Dimenticandoci l’IMU che abbiamo pagato, dimenticandoci, almeno noi in Italia le bambine morte uccise in America e quelle già dimenticate in Afganistan morte per colpa di una mina, perché sono troppo distanti … dimenticandoci tutti i problemi, o forse mettendoli da parte, si perché dimenticare è difficile, e poi i problemi ritornano, ma metterli da parte si, che almeno non dobbiamo essere felici e sereni una volta l’anno?
Caro san Giuseppe,
scusami se approfitto della tua ospitalità e, con una audacia al limite della discrezione, mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te.
Non voglio farti perdere tempo. Vede che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze.
Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto, che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti d’oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole.
Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili. Vi si parlava di tutto: di affari, di donne, di amori, di stagioni, della vita, della morte.
Le cronache di paese trovavano li la loro versione ufficiale e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano un’eternità. Ma forse, era proprio questa lusinga d’eternità a rendere preziosa un’opera d’artigianato. E a darle vita, era proprio quell’angosciante porzione di tempo che vi veniva racchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno o il ferro, ma il tempo. E che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio, fosse quella di addomesticare le ore e i giorni, comprimendoli nel mistero dell’effimero, e creandosi così, per un istinto di conservazione, riserve di tempo negli otri delle cose prodotte dalle sue mani. Il tempo allora, imprigionato nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un oggetto e gli dava movenze di vita, se non proprio l’accento della parola.
Le cose nascevano, perciò lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio. Prima, un atto di amore, dolcissimo e soave. Poi nove mesi.
Oggi purtroppo, qui da noi, di botteghe ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo.
Non si genera più. O meglio si concepisce solo l’archetipo. Ma senza passione, e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante celerità squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco.
Ed eccoli allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve. Belli, ma sen’anima. Perfetti, ma senza identità. Lucidi, ma indistinti. Non parlano. Perché non sono frutto dell’amore. Non vibrano, perché nelle loro vene non si sono più i fremiti del tempo prigioniero.
Si, Giuseppe, è proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere.
Ecco attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria, intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tessuto tutto d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù per quando sarà più grande: gliela prepara fin d’ora, prima già che lui nasca.
Io non me ne intendo, e perciò non so se gli arabeschi che disegna con l’ago siano fatti a punto erba o a punto ombra. Forse sono fatti a punto in croce.
Una cosa, però, intuisco: che quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre.
Povera Maria. A Gesù, vorrebbe dargliela tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, racchiusa nello scrigno di quella tunica.
Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.
Oggi, da noi, anche i ricami vengono fatti in serie. C’è una ditta la quale ha inventato una macchina che fa i punti perfetti: e non soltanto quelli! E se tu, dopo aver comprato un guanciale disegnato a punto Assisi, la notte pensi di poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoci da una anonima ricamatrice, bella come S. Chiara, ti illudi amaramente.
Questo forse è il sacrilegio più grave della nostra civiltà. Abbiamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno.
O Dio, riusciamo pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci vuole il seme e, perfino, che per fare il seme di vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore, e lo lasciamo dire solo ai poeti.
Ma se oggi, qui da noi, di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perché non si genera più, quanto perché oramai non si ripara più nulla.
Vedi, Giuseppe. In questi pochi minuti che sto parlando con te, sono già entrati nella bottega un bambino in lacrime con la ruzzola a cui rifare l’asse, una vecchietta con la scranna da impagliare di nuovo, una contadino col mastello a cui si è infradicita la doga, un carrettiere col mozzo della ruota che si è sgranato dai raggi.
Da noi, non si usa più. Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. Del resto, se nelle sue viscere non racchiude un’anima di amore, per quale scopo accanirsi nel ridare vita ad un corpo già nato cadavere?
La nostra la chiamano, perciò, civiltà dell’usa e getta.
Al televisore che sta in cucina si è fulminata una valvola? Niente paura: viene messo ma parte e sostituito con un altro che ha il videoregistratore incorporato.
Alla bambola, che sembra sia stata sorpresa da un colpo apoplettico, si sono scaricate le pile? Portala al bidone della spazzatura. Ne acquisteremo una di quelle che sono vendute con tanto di certificato di nascita, si sposano, fanno l’amore e vanno ai campeggi estivi.
Al fucile giocattolo, regalato al bambino il giorno di Natale, è cadute la vite del grilletto? Presto fatto. Per Capodanno sarà pronto un mitra, col nastro delle pallottole a doppio carrello. E se il nastro si inceppa, per la Befana ecco un sottomarino lanciamissili con la verifica computerizzata degli obiettivi colpiti.
Alla giacca di fustagno è caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Al reggiseno di pizzo si è allentato l’elastico? A un paio di sandali si è staccata la fibia? Non vale la spesa ripararli. Porta via al macero, senza scrupoli. Anzi, no, un momento! tra giorni passeranno quelli della caritas parrocchiale. Che fortuna: con una fava prendiamo due piccioni. Intanto senza spendere una lira, ci liberiamo il guardaroba da ingombri fastidiosi. E poi, diamine! Aiutiamo la gente, facendo contento il Signore, il quale ha detto che i poveri li avremo sempre con noi. Un angolo di Paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente, visto che ce lo stiamo accaparrando sia pure con i riciclaggi delle nostre cose superflue.
Ma che c’è, Giuseppe? Vedo che ti sei fermato col martello brandito a mezz’aria, e i tuoi occhi dolenti mi trafiggono con uno sguardo di disgusto!
Ho capito: quel tuo sguardo vuol dire: “Mi fate pietà. Altro che usa e getta. Valicando davvero ogni limite, avete invertito la frase in getta e usa, visto che siete così abietti da snaturare perfino l’intima essenza della carità, piegandola alla vostra libidine di possesso”.
Si, hai ragione, falegname di Nazareth. Siamo proprio giunti a un tale grado di perfidia, che pretendiamo di elevare a livelli di purezza i liquami delle nostre cupidigie, traffichiamo perfino le scorie del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto, e con una oscena mascherata di gratuità di illudiamo di riscattarci dal nostro interminabile inverno d’amore.
E guarda, che non ti ho detto tutto, perché hanno ancora paura di quel martello che è rimasto brandito a mezz’aria. Se, infatti, dovessi raccontarti di certe operazioni filantropiche tenute a battesimo dalla televisione, sono sicuro che metterei a dura prova la tua tenuta di uomo non violento. Che vuoi farci! Questi si, sono i misteri buffi che dovrebbero scatenare la nostra indignazione, e nel cui oceano stiamo tutti facendo naufragio!
D.G.