Quando a Bronte nell’ottobre del 1985, con una trovata giornalistica, pensammo di far precedere il “Processo a Bixio” da un incontro con gli studenti liceali per coglierne gli umori, non immaginavamo di toccare una corda ancora tesa della sensibilità popolare.
Quei giovani partecipavano alla battaglia della memoria che rimetteva in discussione il Risorgimento, il rapporto tra Nord e Sud e la stessa Unità d’Italia. Come se il tempo si fosse fermato, nell’aula del collegio Capizzi aleggiava l’insofferenza per quel marchio infamante di colpevoli di lesa umanità che Nino Bixio aveva lasciato in eredità ai brontesi.
Si tendeva a giustificare i protagonisti della sanguinosa rivolta dei primi di agosto del 1860, che provocò diciassette morti, e a condannare Nino Bixio che l’aveva duramente repressa facendo giustiziare, dopo un processo sommario, cinque presunti capi.
Emendarsi dal marchio d’infamia era lo scopo principale del processo, che riunì politici e studiosi eminenti, concluso con una sentenza che cancellava il peccato originale dei brontesi ma allo stesso tempo assolveva il generale garibaldino perché, agendo in stato di necessità, aveva compiuto il proprio dovere, salvando la rivoluzione garibaldina.
Giornalisticamente sarebbe stato un bel colpo di scena la condanna di Bixio ma ad essa non si arrivò anche per l’opposizione dei consiglieri comunali socialisti, il cui capo Bettino Craxi era un cultore della memoria garibaldina, che minacciarono di provocare una crisi politica togliendo il sostegno alla Giunta di centro sinistra.
In quell’occasione s’intrecciarono per l’ennesima volta politica locale e nazionale, mentre a ricordare i riflessi internazionali c’era il castello della Ducea di Nelson, simbolo residuale dell’Imperialismo britannico ottocentesco.
Nei discorsi degli studenti s’intravedevano anche i prodromi del futuro dibattito politico, con il Risorgimento sul banco degli imputati, che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni della nostra storia tra indipendentismi, regionalismi, autonomismi e razzismi, con il corollario di un fertile mercato editoriale della contro storia che, come nel caso della Resistenza, finge di dare finalmente voce ai “vinti”.
Quanto sia falsa questa impostazione, come invece della memoria dei fatti di Bronte sia stato fatto un uso strumentale adattandolo alle contingenze e agli interessi di parte, è uno dei temi del bel libro di Lucy Riall “La Rivolta. Bronte 1860” edito da Laterza (pp. 354, euro 20), ben documentato e con una visione profondamente innovativa.
La storica ha intrecciato una fitta trama intorno alla rivolta, affinché le epoche precedenti e quelle successive servano ad illuminarne i vari aspetti e a spiegare il tipo di narrazione che di volta in volta ne è stato fatto.
Perciò il libro racconta Bronte e la storia della Ducea dal 1799, quando fu donata all’ammiraglio Horatio Nelson da re Ferdinando IV di Borbone, al 1969 quando il settimo duca Alex Bridport vendette i terreni rimasti ai contadini e il castello alla Regione. Importanti sono le pagine dedicate al precedente proprietario, l’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, da cui la Ducea ereditò la lunga contesa per i diritti sulle terre comuni.
Lucy Riall osserva Bronte come un luogo in cui s’incontrano e scontrano centro e periferia, in cui s’insediano i rappresentanti dell’Impero britannico all’epoca del suo maggior fulgore e del dominio nel Mediterraneo, per misurarne l’impatto, le reazioni, e per analizzare i riflessi sul processo identitario della comunità. Qui più che altrove sono visibili i reciproci condizionamenti tra politica locale, nazionale e internazionale.
«Da questo punto di vista – scrive Lucy Riall -, è forse più corretto considerare Bronte come un microcosmo in cui si riflette l’età delle rivoluzioni. Qui, la vita personale e sociale ebbero una serie di intricate connessioni con gli eventi nazionali e tutti questi elementi furono collegati a pressioni internazionali. Fu questa combinazione a conferire a Bronte il suo esplosivo potenziale».
Lucy Riall, studiosa del Risorgimento nota soprattutto per il libro “Garibaldi. L’invenzione di un eroe” (Laterza), insegna all’Istituto universitario europeo di Firenze e al Birkbeck college dell’Università di Londra, ed è di origine irlandese, il che, per spirito vulcanico e insularità, la pone in profonda sintonia con la Sicilia e le dà un’innata sensibilità per capire i meccanismi psicologici e sociali messi in moto da una presenza imperiale.
Non a caso l’Irlanda è presa ad esempio negativo, per opposti motivi, da due comprimari della lunga storia della Ducea. Nel 1817 arrivò a Bronte il procuratore inglese Bryant Barrett, il quale in una delle sue lettere a William Nelson, fratello dell’ammiraglio e suo erede, scrisse che la Ducea «era stata amministrata come una proprietà irlandese, dove il primo affittuario si arricchisse, il subaffittuario fa la fame e i beni vanno in malora». Nell’anno 1900 il sindaco di Bronte, Placido De Luca, lanciava questo avvertimento al duca: «Sappia che Bronte è terra italiana e non irlandese».
Una delle fonti principali di Lucy Riall sono le carte della Ducea, vendute negli anni Ottanta alla Regione Siciliana e conservate presso l’Archivio di Stato di Palermo. Una miniera finora inesplorata, ricchissima di lettere, di documenti e fascicoli giudiziari densi di riferimenti storici per la necessità di dimostrare la fondatezza di diritti e prerogative. Sicché molte vicende vengono raccontate attraverso gli occhi degli ospiti della Ducea.
Il tema ricorrente è l’arroganza dei cittadini dell’impero contrapposta alla furbizia e alla rapacità dei brontesi, spesso considerati selvaggi e primitivi. La storica però rovescia un altro luogo comune: dimostra che la retorica del vittimismo contro il padrone straniero è stata un utile strumento nella mani delle classi dirigenti locali, divise in fazioni in lotta tra loro, che lucrarono come gabelloti sui terreni della Ducea o se ne appropriarono indebitamente, fecero fallire le riforme del latifondo dai Borboni allo Stato unitario, utilizzarono il potere per favorire le rispettive clientele e seppero sfruttare la giusta rabbia dei contadini per i loro interessi.
Basti pensare che nel 1861 l’amministratore della duce William Thovez, dopo anni di liti giudiziarie, accettò per sfinimento una transazione con cui cedeva molti terreni della Ducea, che fino al 1896 non erano stati ancora completamente assegnati.
La rivolta del 1860 s’inserisce nel contesto delle lotte tra le fazioni locali: la rabbia popolare esplode per la mancata divisione delle terre comuni promessa da Garibaldi. I garibaldini però temevano, per il diffondersi dell’anarchia e della violenza nelle campagne, di perdere il consenso dei proprietari così come era accaduto ai rivoluzionari del 1848.
Inoltre era necessario salvaguardare i beni degli inglesi visto che la Gran Bretagna era un’aperta sostenitrice della spedizione dei Mille. Perciò l’intervento deciso di Bixio, che fremeva per ricongiungersi a Garibaldi, attraversare lo Stretto di Messina e tornare in prima linea. Nella fretta fece condannare almeno un innocente, l’avvocato liberale Nicola Lombardo.
Lucy Riall sostiene che, contrariamente al 1820, nell’agosto del 1860 il ruolo della Ducea fu marginale, anche se non ignora che la sua protezione, sollecitata dal vice console inglese a Catania, fu raccomandata espressamente da Garibaldi.
Anche se non è più il caso di cercare colpevoli ma di capire, certo il ricordo di Bronte tormentò a lungo Bixio: “Missione maledetta”.
La maledizione è parola chiave che accompagna la storia della Ducea, donata a Nelson per un tradimento, per aver infranto la parola data e aver fatto impiccare l’ammiraglio Caracciolo nella rivoluzione napoletana del 1799.
Maledizione che perseguiterà i contadini, le vere vittime di questa lunga storia di ingiustizia sociali e diritti negati.
Il ruolo dei “ducali”, secondo Lucy Riall, fu un’elaborazione posteriore. Esso fu centrale nell’arringa di Michele Tenerelli Contessa pronunciata al processo di Catania nel 1864, in cui si sosteneva la legittimità della rivolta contro il trasformismo della classe dirigente borbonica rimasta al potere e alleata con i ducali per proteggere i rispettivi interessi e contro i contadini.
Salvatore Scalia LaSicilia
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