Tre anni fa, l’1 novembre, moriva Alda Merini (1931/2009), la poetessa passata attraverso l’inferno del manicomio e riemersa all’orizzonte letterario nazionale solo dal 1980. Alla precoce affermazione giovanile, specie nel 1953 con la raccolta “La presenza di Orfeo”, segue infatti un lungo silenzio per i molti ricoveri dovuti alla malattia mentale.
La vocazione della poesia è stata per la Merini un privilegio e una dannazione, avendo alimentato un violento conflitto psicologico tra aspirazioni e frustrazioni soggettive e condizionamenti imposti dalle difficoltà economiche, incomprensioni del marito panettiere, disattenzione crescente, dopo l’interesse iniziale, del mondo intellettuale.
Il volume “Vuoto d’amore” indicativo già nel titolo del disagio dell’autrice, consente un veloce excursus dell’iter esistenziale e della sua passione poetica.
I testi dedicati o ispirati ad amici e estimatori (Quasimodo, Montale, Turoldo, Betocchi, Scheiwiller, Raboni), a controfigure letterarie (Saffo, Gaspara Stampa) o a Manganelli, con cui la Merini adolescente ebbe una tormentata relazione («le nostre ore – scrive – di amore cattivo/vissute in piena disgrazia»), se riportano a precise fasi biografiche, da quella sempre rimpianta degli esordi al tardivo rilancio editoriale alla fama mediatica propiziata proprio da Raboni, illuminano pure i nodi emotivi del suo poetare: l’amore negato; la religiosità tramata di misticismo, trionfo dei sensi, morsi del dolore; la “diversità” del poeta; il bisogno spasmodico di comunicazione, contatti umani, sogni poetici per riequilibrare l’assalto della solitudine e delle ombre interiori. Punto questo più evidente nelle sezioni per Charles e per Pierri, suo secondo ottantenne marito, che oscillano fra una illusa ritrovata vitalità e nuove sconfitte e incomunicabilità.
Più drammatici i testi che rievocano il manicomio, definito “Terra Santa” perché in Palestina Cristo visse la sua morte e resurrezione come la Merini infine risorta, e perché i pazzi quasi “ebrei” e “branco di asceti” vi pativano la segregazione di sbarre e cancelli, la violenza degli elettrochoc, dei sedativi eccessivi, delle fascette di contenzione, dei lavaggi con i disinfettanti in una umiliante nudità collettiva, la colpevolizzazione di desideri e istinti, la spoliazione di ogni dignità.
Versi intensi sono pure quelli che cantano l’amore di Alda per la poesia («mia dolce chiara bella creatura») che è amore di se stessa («Spazio spazio io voglio…per cantare crescere/errare…»), dei suoi tormenti e voglia di vita se, quando scrive, china il capo nella polvere anelando il vento, il sole, la sua «pelle di donna/contro la pelle di un uomo».
Lei, piccolo insetto «alacre e insonne» che scalpita nella rete, lei, mitica Proserpina seminatrice di parole, che piange la sera sulle erbe e i «grossi frumenti gentili» dischiusi dalla terra, come tutti i poeti/profeti che scontano nel loro «vivere nudo» e inerme la follia/dismisura dell’anima entro le strettoie feroci del quotidiano.
LaSicilia
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