È grande Libertà per l’Uomo quella che gli fornisce il suo ingegno, grande bacino collettore di libertà di pensiero, d’azione, di parola. Libertà limitrofe ma non sovrapponibili, la libertas cogitandi, per esempio, non è l’anticamera della libertas dicendi, non ne è il presupposto. Tra il pensiero e la parola c’è una terra di mezzo che solo pochi attraversano, il coraggio. Il pensiero, spesso, resta nelle secche dell’isolamento dell’io, e non ruggisce nella potenza, nella vis della parola. Perché? lo abbiamo anticipato, per mancanza di quella personalità che consente di transitare dall’«autismo» del pensiero alla «platea» del verbo.
La libertà di parola si è sempre scontrata, soprattutto in regime di dittature-imperia, come l’imperium di Caligola Claudio Tiberio Nerone Domiziano, o l’oligarchia dei Trenta Tiranni nell’Atene di Lisia, con la tutela di sé e del proprio interesse. Ha trovato nell’autodifesa del proprio essere fisico o/e patrimoniale un confine invalicabile.
Nella nostra società, in cui arbitrio, parassitismo, licenza sono divinità veneratissime, in cui nessuno rischia di perderci la vita come la perdettero Seneca o Petronio Arbiter, nella Roma di Nerone, la libertà di parola trova un minimo esercizio perché si scontra con la tutela dell’interesse economico, con l’accaparramento di privilegi, che nulla hanno a che fare col merito individuale, che tutto hanno a che fare con l’asservimento e la cortigianeria a feudatari della politica o dell’economia, considerati «bancomat h 24» per consulenze e incarichi del tutto spropositati quanto illegittimi.
La libertà di parola, orale o scritta, fu pagata al prezzo altissimo della propria vita nella Storia del pensiero e della letteratura classica, stagione in cui era Vita il pensiero e la sua espressione, non certo l’ottuso meccanicismo biologico d’un battito cardiaco.
Libertà di pensiero, ma oltremodo di parola, dimostrò quel Luciano di Samòsata in Siria, II sec d. C., che usò i toni del beffardo dell’ironia del sarcasmo come olii della tavolozza d’un pittore.
Qualche volta abbiamo fatto cenno a questo mordace siro che centinaia di volumina scrisse, transitando sempre con leggerezza dalla filosofia alla mitologia, utilizzando come generi il pamphet o il dialogo, che dissacrò, profanò dall’augusta consacrazione che ne aveva fatto Platone.
Molte volte torneremo su volumetti lucianei, pur convinti che la sua «libertà» non sia né occasione di pentimento per quanti servi sono, furono e saranno, per le ignobili ragioni che abbiamo analizzato, convinti però possa essere assunta come “modello”, oltre che come grande terpsis di letteratura, da chi non riesce, per veniale donnabbondismo, a fare il salto della quaglia, dalla libertà di pensiero alla libertà di parola.
«Credi di passare per dotto comprando libri pregiati, pur senza capirci un’ acca… mentre questo è il più grande indizio della tua ignoranza» («Contro un ignorante che comprava molti libri», Luciano).
Luciano se la prende con un ricchissimo campagnolo che comprava libri pregiatissimi senza capirci niente, solo perché l’acquisto potesse contraffarne la sua immagine, da ricco massaro a fine bibliomane!
«La scimmia è sempre scimmia anche se avesse indosso un camiciotto d’oro. Tu tieni un libro in mano e leggi sempre, ma di quel che leggi non capisci niente e sei un asino che sente suonare la lira e muove le orecchie… se uno, senza saper suonare il flauto, avesse i flauti di Marsia e di Olimpo, potrebbe per questo forse suonarli? Ora se un ignorante come sei tu comprasse molti libri non farebbe solo ridicolizzare la sua ignoranza?».
Quanti ne conosciamo che, sottobraccio, fanno sfoggio di buone testate giornalistiche, senza avere mai letto un solo articolo o un editoriale, nulla in assoluto che non fosse un necrologio o la pubblicità di uno stimolante sessuale, spacciato come miracoloso e a buon mercato, per giunta. Quant’altri ne conosciamo, impegnati nella citazione d’un’efficace frase aristotelica o platonica, copiata e trascritta in agenda per uso ad effetto di platee idonee a riconoscere, per frequentazione di stabula e identità di ambienti, solo il raglio dell’asino!
Dimostrata l’attualità del «classico» avventuriamoci, aiutati da Luciano, sempre all’interno dello stesso libello, nella stupidità dell’ostentazione. «Un uomo molto ricco era privo d’entrambi i piedi, gli si erano incancreniti per il gran freddo. Si fece fare dei piedi di legno e sopra questi camminava sorretto dai servi, ma faceva una cosa assai ridicola, comperava bellissime scarpe sempre nuove per i suoi piedini di legno, perché avessero una calzatura attillata. Ora non fai tu la stessa cosa, tu che avendo la mente zoppa e di legno comperi «scarpette d’oro», in cui a stento potrebbe camminare chi ha i piedi sani?
La metafora perfettamente «calza», per restare in tema di scarpe, sulla stupidità di chi ostentando rivela, proprio in questo, tutta la sua ignoranza. L’ostentazione è un pericolosissimo evidenziatore, non sa tenere la bocca cucita, tradisce l’ostentante e lo ridicolizza. «Non è un’altra vergogna che uno vedendo che tu hai un libro in mano ti domanda: è un oratore, uno storico, un poeta?». Tu che lo leggi dal frontespizio rispondi: è questo. Poi come succede che una parola tira l’altra, il tuo interlocutore ti fa domande e tu ti smarrisci, non sai che dire, e vorresti si aprisse la terra sotto i piedi, perché proprio il tuo libro ti accusa….che tu abbia a giovartene dei tuoi libri nessuno di quelli che ti conoscono anche pochissimo lo crederebbe: piuttosto un calvo comprerebbe un pettine, un cieco uno specchio, un sordo un flautista, un eunuco una concubina, un montanaro un remo…sei sono un ignorante credulone, pronto a ingoiare ogni complimento che fanno i tuoi adulatori».
Col fischio il pastore richiama le pecore quand’è ora di rientrare all’ovile, non certo con uno Stradivari! Si impari da Luciano e da tanti classici maestri di buonsenso che la propria natura, di capraio o musicista, viene sempre fuori e la contraffazione di sé, faticosa inutile e dispendiosa, suscita solo pernacchie!
Fonte: LaSicilia
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