Last updated on Ottobre 9th, 2012 at 08:58 pm
Intervista | Dopo molti anni di assenza torna in libreria un classico della letteratura italiana del Novecento, «Le terre del Sacramento» di Francesco Jovine, epopea fondata sulla fame di terra da lavorare e da redimere dalla desolante incuria e dall’inerzia. Vincitore del premio Viareggio all’indomani della prematura morte dello scrittore, avvenuta nel 1950, il romanzo fu salutato da Luigi Russo come suggello realisticamente ispirato dell’epos verghiano.
Le terre del Sacramento sono un feudo del Molise; una famiglia borghese se lo è annesso dopo l’espropriazione dei beni della Chiesa nel 1867: la contesa dura da mezzo secolo. I contadini pensano che una maledizione incomba su quelle terre perché usurpate alla Chiesa e non le lavorano. Proprietario del feudo è l’avvocato Enrico Cannavale, detto «Capra del Diavolo». Intorno a lui, «galantuomo» abulico e indebitato, ruota una genia di piccoli parassiti e di scrocconi. Una cugina, Laura De Martiis, divenuta sua moglie, più volitiva e scaltra di lui, sfruttando le sue amicizie in città, ottiene un prestito e riconduce le terre a rigorosa amministrazione. Si serve anche dell’aiuto di Luca Marano «un ragazzo di vent’anni, agile e aitante, di chioma nera e di fresco incarnato», che guida la lotta dei braccianti per rivendicare dapprima col lavoro e poi con l’occupazione il possesso di quelle terre. Ma giungono i torbidi di quello che sarà poi il fascismo e Luca Marano, ex seminarista che studiava legge a tempo perso, morirà in un conflitto fra i carabinieri e le camice nere. Nel compianto funebre echeggiano anche voci di riscatto: «Per noi fame e dannazione , ma per i figli paradiso e pane» e giurano di tornare a «quelle terre maledette». Restaurati i diritti della proprietà feudale, Laura Cannavale parte con animo tranquillo per Sanremo.
Studioso dello scrittore molisano, Francesco D’Episcopo, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Napoli Federico II, è autore dell’introduzione (Donzelli editore, pp. XIV-260, rilegato, € 23,00).
– Professore, i suoi studi hanno ribaltato la corrente interpretazione su Jovine. In quali termini?
«Per restare entro i confini de “Le terre del Sacramento”, Luca Marano è stato sempre considerato dalla critica come l’eroe gramscianamente “positivo” del romanzo, come il consapevole capo-popolo, che si mette alla guida dei braccianti per rivendicare loro il possesso e la coltivazione delle terre. A mio avviso, la situazione risulta ben più complessa ed emerge da una lettura più capillare del romanzo. Luca, innanzitutto, non soggiace ad alcun, obbligante credo politico; egli lotta, fideisticamente, contro ogni forma di usurpazione e di violenza, in nome della libertà e della verità. I problemi di sfruttamento delle terre nascondono poi, al loro interno, ambiguità e privilegi, che vanno meglio indagati, anche alla luce di fattori finanziari importanti, che entrano in gioco alla fine del romanzo».
– Quindi, qual è la nuova prospettiva critica che emerge?
«Luca dirà apertamente che, dopo essersi occupato dei contadini, spera di fare altro. Gli sarebbe perfino piaciuto fare l’emigrante. La “nuova prospettiva” comprende nel suo ampio spettro un orizzonte profondamente cristiano: Luca è una sorta di angelo, che molto somiglia a quelli di Walter Benjamin e Wim Wenders, il quale si trova a dover condurre una battaglia sulla “terra” per sconfiggere il demone del Male, che si annida nella storia e nella coscienza degli uomini».
– Un vecchio prete, missionario per quarant’anni in Africa, rappresenta l’opposizione all’attività dei canonici mescolati agli intrighi. Quale la genesi di un personaggio così luminoso?
«Jovine è sempre stato affascinato dalla figura del prete. In “Signora Ava” c’era stato Don Matteo Tridone, che nella parte finale del romanzo riscattava la propria fragilità a favore dei più deboli e poveri. Ne “Le terre del Sacramento” domina la figura di Don Giacomo Fontana, il vecchio prete, che ha sempre svolto la propria missione con i fatti, non con le parole, e che esercita una funzione davvero “rivoluzionaria” nell’orientare il pensiero e l’azione di Luca Marano a favore dei contadini contro i potenti».
– Attraverso quale processo si modifica la psicologia di quelle plebi dominate dai pregiudizi e dalle superstizioni?
«Luca Marano non crede né cede a pregiudizi e superstizioni e spera che questo suo “illuminismo”, naturale e culturale, possa contagiare quelle plebi meridionali, che non riescono a diventare popolo. Ma il suo sogno è destinato a rimanere sospeso sulla soglia dell’attesa».
– Che significato riveste la rappresentazione di una città molisana, dove gli avvocati trasformano la piazza principale in un caravanserraglio di sottili disquisizioni giudiziarie, politiche e umanistiche?
«Jovine ama sottolineare lo scarto tra una borghesia “umanistica” meridionale, invaghita della sua cultura e del suo potere, e una plebe che continua ad essere un facile strumento di manipolazione da parte delle nuove ondate politiche e storiche, che attraversano il nostro Paese».
– Assistiamo nel romanzo al nascere del fascismo, che non ha ancora un volto definitivo. Che significato ha l’assenza di intenti polemici dell’autore contro di esso?
«Non credo che manchi un intento polemico dello scrittore contro il nascente fascismo, soprattutto nel nome di quella violenza, alla quale si è fatto finora cenno, che quel fenomeno sprigiona e poi scatena».
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