Le modifiche alla legge non fanno perseguire i corrotti.
Narra la leggenda che un giorno un ciabattino indicò al greco Apelle, pittore ritenuto dagli antichi superiore agli artisti precedenti ed ai successivi, l’errore nel sandalo di una figura. L’artista subito emendò la svista e l’artigiano, tutto contento che il suo suggerimento fosse stato accolto, si azzardò a sdottorare sull’anatomia del ginocchio. Fu allora che Apelle, furioso con l’impertinente, gli disse: «Non salga il calzolaio al di sopra del sandalo! ». L’apologo è poi passato in proverbio, a sottolineare l’opportunità di astenersi dal fornire pareri non richiesti, ed in materie delle quali si è digiuni. E come dissentire? Si tratta, ognun lo vede, di sin troppo ovvio precetto.
Il dubbio sorge quando, invece, come sta avvenendo in questi giorni in materia di giustizia, ci si lamenta delle critiche e delle perplessità manifestate da chi, pratico dell’argomento, evidenzia le inadeguatezze o la sostanziale vacuità di taluni interventi, spacciati come risolutori.
Prendiamo ad esempio il tema del contrasto alla corruzione e della ripulitura della Cosa pubblica dalla mala pianta del ladrocinio e della frode. In astratto, tutti d’accordo. Occorre sradicare un sistema criminale nel quale tanti sguazzano, mentre l’Italia rischia di affogare.
Il guaio è che, in materia, siamo tutti Apelle ed a nessuno fa piacere che si getti lo sguardo al di là del muro del proprio giardino. Vale pertanto la pena di riassumere, sia pure per epitome, i termini della questione.
Malcostume, guasti e conclamate ruberie hanno spinto il governo ad annunciare profonde modifiche alla legge penale in materia di contrasto alla corruzione. Si parla così di inasprimento delle pene, di obbligo di restituzione dei capitali illecitamente ottenuti con le baratterie, di interdizione perpetua dagli uffici pubblici per i colpevoli. Sfortunatamente, questi interventi, per essere efficaci, muovono da presupposti che – allo stato dell’arte – configurano più che degli auspici, degli accidenti, delle rare evenienze: che le indagini comincino, che le prove si acquisiscano, che i processi si celebrino.
Secondo i pratici della materia, occorre dunque (e prima di pensare a rendere le pene, già elevate, pazzamente esorbitanti) introdurre delle norme che rendano possibili e sperabilmente proficue le indagini: prevedere ad esempio una causa di non punibilità per il corruttore pentito che denunci il pubblico ufficiale corrotto (come avviene in materia di contrasto alla mafia ed al terrorismo); ovvero introdurre la figura dell’agente provocatore, che (come negli Usa ed in Italia per i reati di criminalità organizzata, traffico di armi e droga, pedopornografia) avvicini il corruttibile e gli proponga un patto scellerato, all’esito del quale, se il criminale accetta, il reato si consuma ed il malandrino rimane incastrato. Proposte semplici, come si vede, che avrebbero il vantaggio concreto di agire sulla propulsione dei processi, fungendo da moltiplicatore del contrasto, anziché l’effetto astratto di punire con maggiore incisività un corrotto il più delle volte inafferrabile.
Concludiamo dunque: le modifiche proposte a poco servirebbero, trattandosi di interventi disorganici e circoscritti, come tali inidonei ad incidere in un sistema corruttivo assai ampio e radicato nel costume del nostro disastrato Paese; e che per giunta si collocano a valle del fenomeno, il quale non ne verrebbe arginato. Non serve a nulla inasprire le sanzioni, se la legge non consente – di fatto – che i corrotti vengano perseguiti: è come preparare dei campanelli via via sempre più grossi e tintinnanti, con l’intento di apporli al collo di un gatto, al quale nessuno ha il coraggio di avvicinarsi.
Francesco Puleio – Procuratore della Repubblica
f. f. di Caltagirone
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