Dopo la primavera araba l’inverno o l’inferno?
Sono tra quanti salutarono con speranza e fiducia la «primavera araba»: l’Europa arrancava stanca e rassegnata sotto la sferza molle dell’impresa del primo Barroso, e Prodi da Bruxelles vantava ottimismo quando chiedeva un’Europa impegnata a far ricchi i Paesi poveri – inclini per parte loro a segnar la distanza dal tormentato congedo dallo «stalinismo».
Di quella fiducia e speranza nulla è rimasto: l’intervento diretto, militare e diplomatico, degli Usa di Obama si è scontrato con i leader, vecchi e nuovi, di queste rivoluzioni e si è logorato per la tradizionale furberia degli «alleati» e il sostegno occidentale, «senza condizioni» al sionismo (e peggio..) dei conservatori di Israele. Al posto dell’estate, in una «naturale» sequenza, è giunto in quei Paesi (Libano, Egitto, Siria, Libia) l’inverno: ed ora la occupazione russa della Crimea, e il controllo dell’Ucraina hanno scatenato una tensione internazionale inattesa, che è diventata un inferno dopo la guerra guerreggiata tra Israele e Hamas.
Una crisi di queste dimensioni ha colto di sorpresa persino taluni dei protagonisti, certo la singolare assise mondiale delle Nazioni Unite, ove il crescente numero degli associati se giova al peso morale della denuncia non perciò ne accresce l’incidenza politica. Come in tutte le crisi del presente Millennio, l’Europa politica lascia attendere… il colpo, ma poi si limita a balbettare qualche frase di Obama… sol che somigli alle assicurazioni di Putin.
Il Mediterraneo lago di pace?
Dietro l’enfasi retorica, sta il cinismo dell’indifferenza: e ogni nostro discorso torna all’Ue. Quanto costa in danari e spese militari l’attenzione del governo europeo per l’Africa, e per il Medio Oriente e per Israele – uno Stato etnico quest’ultimo, cui è riuscito per questa via ad accreditarsi della tragica sofferenza dell’antisemitismo universale. Negli anni in cui soggiornavo (e ho persino insegnato) in quelle terre, era ancora d’uso criticare l’invadenza territoriale del giovane Stato giustificata peraltro con la minaccia araba ai suoi confini: fu il tempo dei coloni – iniziato «all’americana», con la deportazione di famiglie e comunità arabe da luoghi urbani da bonificare, ove non sarebbero più tornate; e quindi perfezionato con gli insediamenti di fanatici e profeti a ridurre entro spazi vieppiù ristretti gli espulsi o i restituiti alla terra già dei loro padri.
E’ una sorpresa che al-Kaida nasca dal prevalere della dimensione etnica sulla diversità religiosa (invero, più di sette che di religione)? In un tempo, che ha conosciuto la fine della parabola imperialista dell’Europa, e poco appresso le difficoltà dello Stato nazionale, a conferire identità abbiam visto soccorrere or la lingua or la religione. In siffatto contesto, cos’è stato, cosa è, cosa vuol essere lo Stato d’Israele? La terra del rifugio per un’etnia dispersa, che ha trasformato in «Stato» l’esperienza tanto singolare della diaspora: stupisce se una mia allieva da anni propone, senza successo pur in tempi di globalizzazione, uno studio attento del modello della «dispersione» al posto del modello ottocentesco dell’esilio? E sol che si guardi da presso al mondo globale, di diaspore illustri ce ne son tante: con l’ebraica, la ortodossa, la armena, etc. Son come un serpente che lega comunità disperse, per cui e lingua e religione paiono contar più della nascita.
Sono considerazioni che affido alla politica, distratta e impotente, che si occupa di sistemi finanziari e di controllo di materie prime: e non delle comunità, degli uomini e donne cui si toglie la radice vitale dell’insediamento senza perciò dar loro agio e sicurezza. Quel che, nei tempi della speranza e dell’utopia, chiamavamo felicità.
Ma c’è felicità in Israele?
Ha un senso vivere da popolo eletto, è vero, ma come i «figli dell’ira» del terribile Dio antico-testamentario?
Eppure da entrambe le etnie, la miglior letteratura sa usare – lingue fedi filosofie – concetti alti.
Lo è ancora la guerra?
Giuseppe Giarrizzo la sicilia
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