L’Italia guida l’opera di ripensamento delle politiche europee.
Mancano pochi giorni all’avvio della nuova legislatura del Parlamento europeo. È ancora in via di definizione l’accordo sulle nomine, che stavolta non è come in passato una scontata spartizione di posti negoziata dai capi di governo. Si è sviluppato, infatti, un intenso dibattito all’interno dei partiti europei e tra di essi. Non ci sono ancora dei veri partiti europei, del tutto autonomi nelle loro scelte rispetto ai partiti nazionali; qualcosa, però, si muove in questa direzione.
Socialisti e popolari si sono più volte incontrati, anche informalmente, in questi giorni per parlare non solo dell’assegnazione dei posti di vertice all’interno dell’Ue, ma di come bisogna costruire l’Europa se la si vuole salvare.
Inoltre, in materia di nomine il Parlamento rivendica un ruolo più incisivo che, peraltro, ad esso è stato esplicitamente riconosciuto dal Trattato di Lisbona.
Il presidente della Commissione, infatti, si vota. E la sua elezione non può non porsi in un rapporto di continuità con la campagna elettorale delle Europee. In tanti, in questo senso, hanno posto una questione di metodo che non si può e non si deve aggirare. Il confronto elettorale ha riguardato anche le persone che si candidavano a succedere a Barroso, e che erano state indicate dai partiti. È giusto che il Parlamento pretenda di votare uno di questi candidati e non una personalità che non si è sottoposta al giudizio popolare e che viene fuori da una intesa raggiunta dai capi di governo.
La presentazione, poi, da parte del candidato alla presidenza della Commissione da votare, di un programma non costituisce un atto di cortesia verso il Parlamento europeo, ma il risultato di una intesa politica a cui il nuovo presidente non può non sentirsi vincolato nei prossimi anni nei confronti dei parlamentari europei. È questo il primo passo verso la parlamentarizzazione delle scelte più significative che si dovranno fare in Europa.
Uno Stato europeo, del resto, si può costruire davvero se il popolo europeo finalmente comincerà a contare. Non si può fare l’Europa politica se le indicazioni che vengono dagli elettori continueranno ad essere poi ignorate nei vertici intergovernativi. Non si può puntare a eliminare il deficit democratico che affligge la struttura istituzionale dell’Ue e poi avere paura del popolo europeo.
Oggi un rafforzamento del ruolo del Parlamento che vada nella direzione di un consolidamento del processo democratico non può non accompagnarsi ad un riorientamento delle politiche economiche e sociali sollecitato nel corso alla campagna elettorale da partiti dei diversi schieramenti, e soprattutto indicato dagli elettori come priorità ineludibile.
Pare che la linea di Renzi sia stata fatta propria dall’intero Pse, divenendo la piattaforma sulla quale possono convergere i due partiti maggiori che stanno discutendo dell’elezione del nuovo presidente della Commissione.
Juncker, designato dal Consiglio europeo alla presidenza della Commissione, in primo luogo è stato valutato per le cose che si è impegnato a fare e non per i protettori che lo sostengono. Anzi, l’appoggio della Merkel avrebbe potuto portare ad una sconfitta di questa candidatura in assenza di un preciso impegno a realizzare significative novità sul terreno delle politiche europee dei prossimi anni. Di ciò si è reso conto la cancelliera tedesca che, dopo un prolungato braccio di ferro, ha accettato il principio della candidatura “vincolata” ad un programma condiviso da un largo schieramento parlamentare, così come si conviene in una nuova stagione della vita delle istituzioni comunitarie in cui il rapporto tra Parlamento ed esecutivo non può essere solo genericamente fiduciario. Stanno finalmente prevalendo all’interno del confronto tra i vertici politici delle parole d’ordine che la cancelliera tedesca non voleva neanche sentire pronunciare. Adesso sono in tanti, e non solo nell’area socialista, a spiegare che la nuova Commissione deve essere espressione di un preciso indirizzo politico in grado di fare cambiare pagina alla politica europea.
Il che significa riconsiderare le politiche dell’austerità evitando interpretazioni aberranti del Trattato che hanno fatto dell’Europa un “emporio di miseria”. Alla politica del rigore bisogna sostituire una politica della flessibilità. E ciò non significa buttar a mare il Trattato europeo, ma, anzi, rispettarlo fino in fondo considerato che il tanto discusso tetto del deficit – nel contesto del rapporto deficit/Pil – fissato a Mastricht, in casi eccezionali si poteva superare. È stato un Regolamento comunitario a vietare quello che il Trattato concedeva. Si è accettata, quindi, un’ interpretazione “illegale” del Trattato. Insomma, la politica del rigore in presenza di una crisi eccezionale come quella che ormai viviamo da anni in Europa è stata una scelta imposta, non dal Trattato, ma da un gruppo di Stati membri con alla testa la Germania.
L’Italia sta avendo un peso decisivo oggi nell’opera di ripensamento delle politiche europee. Si registrano apprezzamenti, consensi, sul modo come il nostro Paese si sta muovendo. E questa è una buona notizia. Significa che il Paese riprende quota nella considerazione internazionale e che sul piano del negoziato europeo non si presenta con il cappello in mano, così come da troppo tempo ormai era abituato a fare.
Sul no al rigore cieco e sul sì ad una linea di flessibilità – come indicano le conclusioni del vertice Ue di Ypres – sta emergendo un largo accordo. Partendo da questa premessa è assai probabile che tutta l’operazione delle nomine andrà a buon fine.
I Paesi che stanno facendo le riforme vanno incoraggiati anzitutto consentendo loro di agganciare una ripresa economica che pare, sia pure lentamente, avviata. Essa dipende anche dagli investimenti che i Paesi europei potranno fare. Questa è l’unica strada che può consentire di iniettare denaro nell’economia reale. Il problema oggi, quindi, è quello andare al di là dell’intesa sulle nomine, per porre dei punti fermi su ciò che bisogna fare dopo le nomine, per realizzare un programma che si ponga in rapporto di forte discontinuità con l’Ue del passato. È di questo che bisogna parlare in questi giorni ai più alti livelli Ue. salvo andò la sicilia
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