Un affare da quasi due miliardi e mezzo di euro, migliaia di nuovi posti di lavoro, attività di ricerca ed estrazioni petrolifere più facili nei prossimi quattro anni: questi, a grandi linee, i contenuti del protocollo di intesa sottoscritto lo scorso 4 giugno dalla Regione Siciliana, dall’Assomineraria, dall’EniMed Spa, Edison Idrocarburi Sicilia Srl e Irminio Srl, finalizzato al rilancio degli investimenti in Sicilia che possano permettere «l’utilizzo razionale delle risorse di gas e petrolio, intensificando gli strumenti dedicati alla sicurezza e al rispetto dell’ambiente».
Una svolta quella decisa dal presidente Crocetta che ha però scatenato la protesta di opposizione, ambientalisti ed enti locali i quali paventano il pericolo di catastrofi ambientali in caso di incidenti, se non addirittura il rischio che l’attività estrattiva possa innescare eventuali terremoti in una porzione del Mediterraneo notoriamente considerata «altamente esposta».
Cauta, ma con le idee ben chiare la comunità scientifica. Davvero può esserci una relazione fra le estrazioni petrolifere e i terremoti?
Il giornalista Alfio Di Marco, de La Sicilia, gira la domanda direttamente al sismologo Domenico Patanè, al vulcanologo Mauro Coltelli, al geofisico Mario Mattia dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) e al geologo-strutturale Carmelo Monaco dell’Università di Catania.
«Le relazioni tra le attività estrattive e i terremoti sono un argomento sicuramente caldo – spiega Patanè -, visto che è in atto un ampio dibattito politico e scientifico sulla relazione della commissione Ichese (oggetto anche di un articolo sulla rivista Science), nella quale si suggerisce che, in qualche modo, il sisma del 2012 in Emilia possa essere stato causato, anche se non completamente, dall’attività umana di sfruttamento o di utilizzo di reservoir (in gergo petrolifero, roccia serbatoio, ndr). La commissione ritiene che l’attività antropica possa aver fornito un contributo allo sforzo che già agiva sul sistema di faglie».
«Occorre tuttavia dire – continua Patanè – che in Emilia si fa un po’ di confusione soprattutto quando si parla di attività di fracking, pratica che consiste nel pompare acqua e additivi chimici ad alta pressione nel sottosuolo, in modo da frantumare rocce scistose liberando il petrolio e il gas che vi sono imprigionati. In Italia, a differenza degli Usa, non esistono le rocce adatte a questa pratica e pertanto il fracking non è attuabile».
«L’acqua è comunque utilizzata anche nelle tecniche in cui si cerca di aumentare la quantità di petrolio estratta da un pozzo. I metodi più avanzati per l’estrazione di petrolio e gas naturale producono ingenti quantità di liquidi di scarto. Liquidi che sono poi smaltiti reiniettandoli nel sottosuolo».
Quali rischi si corrono, allora, nel Canale di Sicilia?
«In generale – puntualizza Patanè – l’attività sismica nell’area del Canale di Sicilia è piuttosto vivace anche se i terremoti registrati sono normalmente di bassa magnitudo. Il problema maggiore sorge nel momento in cui l’attività estrattiva avviene lungo o in prossimità di faglie poco o non conosciute affatto. Purtroppo, ancora oggi gli studi di questa porzione del Mediterraneo non sono approfonditi, prova ne sono i risultati di un lavoro di ricerca condotto da Carmelo Monaco dell’Università di Catania e da Mario Mattia dell’Ingv che hanno individuato la prosecuzione in mare del sistema di faglie della Valle del Belice».
Aggiunge Carmelo Monaco: «L’identificazione e la caratterizzazione di strutture sismogenetiche nella Sicilia sud-occidentale è un problema aperto. La sequenza distruttiva del terremoto della Valle del Belice del 1968 ha dimostrato che le faglie frontali dell’orogene (area allungata della crosta terrestre, ndr) sono sismicamente attive e che i processi sismotettonici accomodano la compressione lungo la zona di sutura tra Africa ed Europa. In particolare, è stata identificata in tutta la Sicilia meridionale, da Catania a Castelvetrano, una grande struttura (denominata Sicilian Basal Thrust) che dal fronte della catena si immerge verso nord, fino a una profondità di alcune decine di chilometri».
«Nel nostro studio – fa eco Mario Mattia – sottolineiamo la presenza di una deformazione recente e attiva associata a un allineamento Sud-Ovest Nord-Est tra Campobello di Mazara e Castelvetrano, all’interno della zona sismogenetica in cui si è verificata la sequenza del terremoto del 1968. Questa struttura tettonica, e la sua estensione orientale nella Valle del Belice e occidentale lungo il Canale di Sicilia, fa parte del sistema di faglie frontali della Sicilia sud-occidentale che, come rivelano dati archeosismologici, potrebbe essere stata responsabile anche dei terremoti distruttivi del passato (per esempio, la distruzione dell’antica citta greco-romana di Selinunte) ».
Nel Canale di Sicilia, poi, è presente anche una consistente attività vulcanica: quanto questo aspetto può costituire un pericolo per l’attività estrattiva di idrocarburi?
«Purtroppo – spiega a sua volta il vulcanologo Mauro Coltelli dell’Ingv – anche lo stato delle conoscenze sui vulcani attivi sottomarini nel Canale di Sicilia è molto approssimativo a causa della mancanza di uno studio sistematico e approfondito. Il sistema vulcanico di cui fa parte il Banco Graham che ha prodotto, durante l’eruzione del 1831, la formazione dell’isola Ferdinandea a circa 25 miglia a sud-ovest di Sciacca è costituito da un campo di coni piroclastici sottomarini che hanno generato almeno 10 eruzioni negli ultimi 10.000 anni. Sempre nell’area del Canale di Sicilia è presente l’isola vulcanica di Pantelleria. Questo vulcano ha dato luogo a un’eruzione sottomarina nel 1891, a circa 4 km a nord-ovest dalla costa dell’isola. Tale eruzione fu preceduta da una serie di terremoti che fecero sollevare di oltre un metro la costa nord di Pantelleria. I cataloghi delle eruzioni vulcaniche storiche, riguardo al Canale di Sicilia, riportano poi altri fenomeni prodotti da due banchi situati a est del Banco Graham. Il Banco Pinne situato al largo (circa 25 miglia) di Porto Empedocle avrebbe prodotto tre emissioni di gas e materiale incandescente il 4 ottobre 1846, nel 1867 e il 30 settembre 1911. Il Banco Madrepore situato al largo (circa 30 miglia) di Gela avrebbe prodotto emissioni gassose in occasione di un terremoto nel 1845. Queste attività potrebbero non essere di natura vulcanica, bensì prodotte dalle improvvise e violente esalazioni (eruzioni) gassose dei giacimenti d’idrocarburi che lasciano piccoli crateri sul fondale marino, crateri detti “pockmark”».
«Un quadro complesso – conclude Coltelli – su cui si è discusso nel corso di un’audizione alla commissione Ambiente del Senato, e in cui rappresentanti dell’Ingv, dell’Ispra e dell’Istituto di scienze marine del Cnr hanno posto l’attenzione sull’alto rischio ambientale al largo delle coste siciliane, tra Mazara del Vallo e Porto Empedocle».
«Non è possibile stabilire a priori – conclude a sua volta Domenico Patanè – una eventuale relazione fra estrazioni di greggio e terremoti. Più concreta è la possibilità che i terremoti inneschino eruzioni sottomarine di gas, come avvenuto nel passato, e non si può escludere che le aree di perforazione siano vulnerabili a questi eventi le cui conseguenze risultano difficili da immaginare. La nostra opinione è che le nuove attività di esplorazione per l’estrazione di idrocarburi debbano essere precedute da studi preliminari approfonditi ed essere accompagnate da una seria accuratissima di attività di monitoraggio geofisico e geochimico».
Dopo l’accordo ira di Greenpeace: “Crocetta, folgorato sulla via del catrame, sceglie di trivellare il Canale di Sicilia”.
Per Greenpeace: “Crocetta è stato fulminato sulla via del catrame e ha consegnato il Canale di Sicilia ai petrolieri”. “Da buon politico – ha spiegato Alessandro Giannì, direttore delle Campagne – ha firmato i nostri appelli contro le trivelle in campagna elettorale per poi rimangiarsi tutto davanti all’odore dei soldi. Pecunia non olet: nemmeno se puzza di bitume come il famoso pozzo ‘Vega B’”.
Greenpeace negli ultimi due anni – si legge nella nota dell’associazione – ha presentato documenti precisi che smascherano i piani dei petrolieri e di chi dovrebbe controllarli. Con la sua campagna ‘U mari nun si spirtusa’ ha proposto un ‘Piano Blu’ per valorizzare il mare di Sicilia, l’unico vero oro blu dell’isola, e per difenderlo da rischi che appaiono evidenti a tutti tranne che al presidente della Regione Siciliana”.
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