Letta come Cesare? Vediamo prima cosa riuscirà a fare Renzi.
Se è lecito comparare le piccole alle grandi cose, una recente vicenda politica potrebbe richiamare alla mente quel che avvenne alle Idi di Marzo del 44 a. C. allorché Giulio Cesare fu ucciso in Senato da Bruto, suo ingrato figlio adottivo, e da altri congiurati che gli inflissero, secondo lo storico Plutarco, almeno diciotto pugnalate.
Tuttavia, avendo una sola ferita sortito effetto mortale – questo fu il giudizio del medico necroscopo Antistione – se ne può dedurre che le mani di molti senatori tremarono al momento cruciale, verosimilmente nella consapevolezza della inaudita gravità del gesto.
Va ricordato che Cesare, rassicurato della buona accoglienza in Senato (eppure la moglie Calpurnia gli aveva comunicato i brutti presagi di un veggente), vi si recò serenamente, incredulo che gli fosse stata decretata quella tragica fine. I congiurati, contrariamente a quanto di primo acchito possa ritenersi, non erano mossi solo da invidiosa competizione. E con forte riluttanza, pur prevedendo l’accusa di tradimento (Dante li confinò alla Giudecca), arrivarono a decidere la soppressione del grande Cesare convinti che la sua esagerata autoritaria intraprendenza avrebbe portato a una dittatura permanente e messo fine alla gloriosa Repubblica, di cui i romani erano attenti e orgogliosi custodi.
Inutile dire che l’ex premier Enrico Letta è stato soppresso politicamente e non fisicamente come Cesare, anch’egli per mano amica, in maniera inelegante e inaspettata anche perché, nella recenza del fatto (“stai tranquillo”) aveva avuto assicurazioni esplicite di sopravvivenza almeno per un altro anno: il tempo indispensabile, cioè, per varare qualche fondamentale riforma da tutti, almeno a parole, auspicata.
La motivazione del siluramento del governo, in verità, non trae origine principalmente dall’ambizione del sindaco fiorentino, ma da segni abbastanza evidenti di impantanamento. La macchina procedeva lenta e lutulenta e perciò bisognava imprimerle una forte scossa nella speranza di non vedere affondare, col partito democratico, anche il Paese.
Certo “il modo ancor m’offende” potrebbe lamentare il defenestrato Letta (la sua gelida stretta di mano al successore, lo ha dimostrato senza affettazione); ma non va sottaciuto che la politica è stata sempre improntata ad algido cinismo e uno sguardo alla storia passata – in tutti i tempi, anche fuori d’Italia – può darne ampia asseverazione.
Quando il fine perseguito è ritenuto sostanzialmente apprezzabile (Machiavelli docet), è assodato che ogni mezzo è tradizionalmente tollerato. Prevale, in politica, l’etica del risultato ottenuto e non dello strumento adoperato. Ed è perciò che il giudizio definitivo sulla svolta va rinviato alla conclusione della vicenda.
E’ difficile dare al momento una valutazione su quanto avverrà, anche perché le dichiarazioni programmatiche del nuovo premier sono forse improntate a vaghezza se non proprio a vacuità, come nemici pregiudizialmente ostili proclamano senza peraltro offrire alternative plausibili, né promettere ragionevole sostegno, quanto meno, alle poche soluzioni condivise.
Certo è però che Renzi, accusato, a torto o a ragione, di spregiudicata supponenza e di superficiale pressapochismo, ha chiaramente detto di “metterci la faccia” e di assumersi in prima persona tutta intera la responsabilità di un eventuale insuccesso: consapevole che il verificarsi di quest’ultima ipotesi significherebbe – post hoc, propter hoc – la sua morte politica. E i primi a pugnalarlo sarebbero i suoi compagni di partito.
Va detto, comunque, che solitamente nelle dichiarazioni programmatiche chi chiede la fiducia alle Camere difficilmente oltre agli obiettivi prefissi indica, se non genericamente, gli strumenti operativi. Fra questi, immancabilmente, la riduzione delle spese superflue, l’abbassamento delle tasse gravanti sui soggetti più disagiati, l’innalzamento (cauto, si intende) di quelle che toccano i ceti più ricchi, ed ancora interventi per abbassare la disoccupazione, nonché (come sempre) la lotta all’evasione fiscale.
Quanto sia stato, quest’ultimo obiettivo, perseguito negli anni, basta dare un’occhiata alle statistiche carcerarie: negli Usa i detenuti evasori ammontano a circa il venti per cento del totale, mentre in Italia è pressoché impossibile trovarne qualcuno in cella a meno che non si tratti di nascondimento delle entrate ma di ingannatrice attività fraudolenta (cfr. caso Berlusconi); e anche in questa evenienza non mancano gli appigli processuali quanto meno perché l’espiazione (si fa per dire) consiste nello starsene a casa in famiglia o conversare con gli assistenti sociali.
Altra accusa che si muove a Renzi è di non avere ottenuto l’investitura popolare, ragione per cui il suo non sarebbe un governo democratico. Si tratta ovviamente di una affermazione ipocrita, sia perché non mancano esempi anche recenti di presidenti del Consiglio non parlamentari, sia perché la vera investitura viene dalle Camere al momento in cui votano la fiducia e non già attraverso leggi elettorali (vedi “porcellum”) che hanno conferito di fatto alle oligarchie di partito il potere di nomina. Ché anzi, il nuovo leader aveva ottenuto un largo consenso da milioni di sostenitori del partito democratico, il quale era risultato vincitore – ancorché sul filo di lana – nell’ultima competizione elettorale. Sicché non può affermarsi che il suo nome sia stato estratto inopinatamente da Napolitano come il coniglio da un cilindro
Quanto alla designazione di ministri, vice-ministri e sottosegretari, forse non tutti di prima scelta, bisogna attenderli alla prova dei fatti, pur avanzando qualche perplessità circa l’inesperienza (specie in materia economica) di molti che dovrebbe essere supplita dall’ entusiasmo e dalla voglia di far bene. Si tratta certo di compito non facile (che fecero di memorabile i bocconiani?), ma è indispensabile non scoraggiarli. Le critiche sono state molte e talvolta anche ingenerose: tra queste la irrisione al neoministro della Giustizia, Andrea Orlando, cui è stato rimproverato (dagli oppositori di professione con volgari irrisioni) di non essere laureato.
Forse sono gli stessi che hanno dimenticato che uno degli ultimi guardasigilli è stato il leghista Roberto Castelli, certamente laureato con buoni voti, ma in Ingegneria idraulica. Perciò meraviglia che il suo dicastero facesse acqua da tutte le parti. L’ultimo nominato, almeno cosi si afferma, da anni studia i problemi della giustizia relazionando e confrontandosi in sedi prestigiose.
E a proposito di giustizia è sperabile si comprenda finalmente che la sua vera malattia è la lentezza dei processi, ragione per cui è in questa direzione che bisogna concentrarsi, tenendo conto che con un tasso di litigiosità e di criminalità incomparabile con altri paesi europei, è necessario sveltire le procedure, ridurre i mezzi di impugnazione, mantenere coperti gli organici dei magistrati (limitandone l’esodo in politica o nei gabinetti ministeriali), inoltre valorizzando il personale amministrativo funzionalmente ed economicamente.
Quanto alla separazione delle carriere, tanto invocata, si prenda atto che di fatto ormai esiste, giacché il transito dalla funzione requirente alla giudicante è divenuta pressoché impossibile. E se si parla di contraddittorietà delle sentenze (per cui i giudici sbaglierebbero senza pagare) sarebbe bene conoscere chi risarcisce i cittadini per le tante leggi sbagliate, clamorosamente cestinate dalla Consulta per manifesta incostituzionalità.
Mario Busacca lasicilia
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