La questione meridionale è morta ed è stata bella e seppellita. Non costituisce più neanche paragrafo di un programma di governo, né presupposto per nomine o consulenze.
Tutto questo nel silenzio della politica, nella sostanziale impossibilità da parte dei centri di ricerca a sostituirsi a questa, nel “tradimento” delle Università del Sud tutte immerse oggi in una sorta di rimozione di sensi di colpa per passate dissipazioni di risorse ed energie.
Proviamo a capire le ragioni alla base della nuova teoria negazionista della questione meridionale. Intanto, la crisi economica che tuttora assedia il paese e rende difficile esaltare divari in uno stato di complessiva deflazione. Quando si è poveri è difficile comunicare che qualcuno è più povero di un altro. La seconda ragione nasce da un progressivo “spacchettamento” della questione meridionale, spesso invocato, del resto, proprio da alcuni studiosi. Non c’è più un unicum con alla base disoccupazione, ritardi, criminalità ma regioni che seguono percorsi diversi.
La Puglia, ad esempio, è riuscita a difendere importanti insediamenti industriali ed a coniugarli con un turismo di alta qualità. In un’ideale competizione televisiva le sarebbe detto, con riferimento ai fondamentali della sua economia, “sei fuori dalla questione meridionale”!
La Campania è all’attenzione per un gigantesco problema di inquinamento, di degrado ambientale, di criminalità urbana. C’è un divario al suo interno tra aree di benessere, poli di industrializzazione ed un disfacimento territoriale talmente vasto che nessuno in questo momento sembra in grado di affrontare. Se fosse riprodotta in una mappa noteremmo porzioni colorate in nero che convivono con altre in una sorte di patchwork la cui trama è così strettamente connesse da non poter operare alcun intervento per districarla.
La Calabria è regione considerata a perdere della quale ormai non resta che considerarne simboli di resistenza: il magistrato, il sindaco antimafia, l’imprenditore che non paga il racket. Per il resto anche la Calabria è fuori ma per ragioni diametralmente opposte a quelle della Puglia.
La Sicilia è la regione che paga i costi più alti dalla rimozione della questione meridionale. Ridotta ad area periferica, con un impoverimento dei suoi poli industriali e priva di infrastrutture fondamentali, si trova di fronte ad un nodo gordiano: il suo primo problema oggi è costituito dalla gestione del precariato che richiede spesa corrente; gli unici fondi disponibili sono quelli di provenienza europea che non possono essere destinati a spesa coerente ed anzi hanno bisogno di essere cofinanziati anche dal bilancio regionale.
Quel che ne segue è sostanzialmente un blocco nelle politiche di sviluppo, nei piani di riassetto territoriale, nel sostegno alle strutture di conoscenza.
Proviamo a concludere. Una classe politica meridionale ha assistito alla sepoltura della “questione” e forse si sente addirittura sollevata dal non doverne più sopportare il peso. Non può funzionare certo la teoria dello “sgocciolamento” perché tutti i rubinetti dello sviluppo sono a secco. Ma c’è di più: una non conoscenza complessiva da parte della nuova classe di governo dello stato del Sud. Un giorno qualcuno in una ricostruzione storica dividerà la classe politica nazionale del Centro-Nord con riferimento al Mezzogiorno sulla base di un indice ludico: quale parte che lo consoce per averlo scelto a sede delle sue vacanze e quelli che per motivi vari le vacanze hanno scelto di farle all’estero.
La “questione meridionale” in vacanza è tema da “pizzi e fichi”. Meglio era tema da “pezzi e fichi”. Oggi è soltanto un grano di rosario sulle lamentale della crisi quotidiana. Nel senso che spesso è battuta finale in discussione da bar dello sport: “meno male che c’è il Napoli”.
Da questione sociale a questione sportiva: chi lo avrebbe mai immaginato?
Mario Centorrino lasicilia
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