Dal rosso nato nella Valle dei Templi a quelli dell’Etna il settore si conferma tra i più propositivi dell’economia.
Giunone, dall’alto della collina, continua a benedire i parti nella Valle dei Templi. E stavolta il nuovo nato è proprio figlio di questa terra, in senso letterale. E’ un vino coltivato ai piedi del tempio, in un vigneto storico riportato a nuova vita dai moderni contadini con l’obiettivo di riprendere coltivazioni abbandonate, di recuperare antiche colture. Già 120 ettari (su 400) sono stati affidati in concessione a privati per riportarli ad una vita produttiva.
Dopo il ripristino dei vigneti nell’area archeologica di Pompei, dopo il vino dei Fenici a Mozia ecco, quindi, il vino della Valle dei Templi. Non è la prima volta che vino e archeologia concorrono a fare grande un territorio ricco di storia dove l’agricoltura svela il senso e l’origine della civiltà, anzi delle tante civiltà che hanno attraversato la Sicilia del mito.
Ma, al di là delle operazioni di marketing, delle suggestioni, al di là dell’idea fascinosa di bere un “sorso di storia”, il progetto ha anche un grande valore simbolico. Sostituire l’immagine delle case abusive nella Valle dei Templi di Agrigento con quella del tempio di Giunone che sovrasta i filari di Nero d’Avola rappresenta qualcosa di più di una bella cartolina da distribuire nelle fiere del turismo internazionale.
Un’operazione soprattutto culturale ma che, a ben vedere, spalanca altre porte in termini di ricaduta occupazionale, di recupero del paesaggio, di collaborazione tra le strutture produttive del territorio, tutto nel nome della “qualità” unica rotta possibile per creare quella buona economia di cui la Sicilia dei nostri giorni ha fame.
Il vino della Valle dei Templi che verrà commercializzato ufficialmente al Vinitaly 2014 si chiama “Diodoros”, è un blend tra Nero d’Avola, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio ed è il frutto di una convenzione tra l’ente Parco della Valle dei Templi e Cva (Viticultori associati di Canicattì), ne sono state prodotte seimila bottiglie dell’annata 2012 e l’etichetta rimanda alle scanalature tipiche delle colonne doriche dei templi di Agrigento, un’immagine scelta (tra tre bozzetti firmati da un designer siciliano) dalle migliaia di visitatori che ogni anno scelgono di fare una passeggiata all’ombra dei templi agrigentini.
Ancora prima della sua uscita ufficiale il vino della Valle, firmato dall’enologo Tonino Guzzo, è già diventato una star. Alcuni tra i più importanti esponenti della critica enologica internazionale come il brasiliano George Luchi (Valor Economico) e il giapponese Isao Miyajima (firma di Vinoteque) l’hanno degustato in anteprima, giudicandolo tra i migliori rossi della nostra isola. Basterebbe questa “carta d’identità” per comprendere quale concorso di idee, obiettivi, strategie promozionali, ci siano dietro questa bottiglia.
“L’obiettivo – secondo Lucio Monte, direttore dell’Istituto regionale vini e oli, di Sicilia, l’ente che si occupa della tutela e della promozione della produzione vitivinicola siciliana – è sicuramente culturale e punta a legare sempre più un prodotto al suo territorio, in questo caso il Nero d’Avola perché è un rosso che in questo territorio ha da sempre il suo habitat naturale con caratteristiche del tutto particolari conosciute anche a livello internazionale. Credo che oggi tutto questo sia stato possibile perché in Sicilia si va recuperando il senso del settore primario dell’agricoltura, il ruolo centrale che questo settore economico riveste nell’economia dell’Isola».
In Sicilia, quello del vino è uno dei settori che, meglio di altri, sta resistendo alla crisi economica. «Sì – conferma Monte – fortunatamente segna un dato positivo all’interno dell’economia legata al settore agricolo. E’ un mondo dinamico che negli ultimi decenni ha conosciuto una profonda trasformazione, Oggi si coltiva l’uva per fare vino non più per fare alcol, quando si andava tutti in distilleria perché c’erano i contributi della Comunità europea».
Il vino di qualità c’è, i progetti culturali pure, i produttori consapevoli anche, così come i turisti appassionati. Cosa manca alla Sicilia del vino per il boom? «Manca – risponde Monte – il “fare sistema” tra tutti i soggetti coinvolti nel settore. Per esempio, tra gli imprenditori, sia privati che in cooperativa, e le Istituzioni locali. Un’idea alla quale stiamo lavorando, in questo senso è la valorizzazione di una strada bellissima, la Palermo-Sciacca, una striscia d’asfalto tra i vigneti a perdita d’occhio. Sicuramente poter realizzare lungo questa strada un percorso allettante per gli enoturisti che vengono in Sicilia è il nostro prossimo obiettivo, a patto però che le tante attrattive esistenti siano messe “in rete” dai Comuni, ma anche dalle aziende e che tutto questo venga comunicato in maniera adeguata per “vendere” l’idea di questo percorso che si snoda per quasi 100 km. Un altro obiettivo è quello di valorizzare il territorio del Cerasuolo di Vittoria. E’ una zona che grazie a Montalbano sta conoscendo un interesse turistico internazionale soprattutto anglosassone veramente notevole. E poi c’è l’Etna. In questi anni abbiamo portato avanti iniziative di incoming, abbiamo fatto educational con i giornalisti stranieri, abbiamo portato buyers stranieri. Anche qui è un territorio in cui bisogna “fare sistema” soprattutto perché si tratta di una realtà molto più frazionata rispetto ad altre e quindi risulta più complicato, ma non impossibile».
Antonio Rallo (Donnafugata) è uno di quei produttori “illuminati” per i quali temi come l’economia sostenibile, la valorizzazione del lavoro dell’uomo, la tutela del paesaggio, il recupero del patrimonio rurale, la promozione del territorio, non sono una novità. Fanno parte del suo dna e di quello dei 69 produttori collegati ad Assovini l’associazione che presiede e i cui soci producono l’80% del vino imbottigliato nella nostra regione. «Sicuramente – spiega – in Sicilia si è verificato il contrario di quanto avvenuto in Toscana. Lì il Turismo del vino ha “aiutato” tutte le produzioni locali, qui sono stati i produttori siciliani, a far conoscere il nostro vino all’estero.
A loro si deve la promozione della Sicilia più di quanto non sia stato nel passato e questo ha contribuito, in parte, a far sviluppare il turismo e la “voglia” di Sicilia nel mondo. Certo la Sicilia del vino viaggia ancora a due velocità. Ci sono produttori che vivono il mercato coltivando l’uva, vinificando, imbottigliando i propri vini e commercializzandoli, quindi sono vicinissimi al consumatore e poi c’è quel mondo del vino che è ancora un po’ troppo lontano dal consumatore finale in cui si producono vini che vengono “tagliati” da produttori di altre regioni.
Io credo che per fare economia, per creare occupazione, gli agricoltori debbano legare le vendite di una bottiglia di vino al “brand” Sicilia, per lasciare un valore aggiunto ai siciliani e in questo la doc Sicilia ci può aiutare molto. Però, anche se i segnali di ripresa ci sono, siamo tutti troppo piccoli per affrontare il mercato globale. Abbiamo bisogno di qualcosa che riunisca le nostre forze, per esempio di una promozione vera della Doc Sicilia, così come stanno facendo altre regioni. Basti pensare che il Verdicchio delle Marche, una regione che produce molto meno di noi, ha un piano di marketing di 10 milioni di euro mentre la Sicilia oggi ha un piano di marketing, sulla doc Sicilia, pari a zero. Se vogliamo riuscire a conservare il “vigneto Sicilia” (oltre 100mila ettari) non possiamo lasciare il vantaggio dell’uso della promozione alle altre regioni e restare a combattere con le armi che abbiamo finora utilizzato, cioè le nostre energie e i nostri piccoli mezzi economici».
Carmen Grego – LaSicilia
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