“Cari amici sono vagante e cucinante per l’Europa e l’Italia”. Firmato Carmelo Chiaramonte che esordisce così sul suo sito quasi a mettere le mani avanti su quello che è il suo destino contemporaneo di ricercatore della “verità” del cibo.
Modicano di nascita ma cosmopolita nell’animo, l’abbiamo conosciuto come chef ma sotto il cappellone pulsava già il cervello fino del cuciniere errante, più incline al suo dna di siciliano vero e in quanto tale pronto ad andare e tornare dalla sua Isola per donare conoscenza. Eccolo quindi con la valigia quasi pronta perché la Francia lo attende. Sta per essere pubblicato oltralpe, la data fissata è il 5 settembre, “Petite philosophie du Champignon”, traduzione in francese de “L’estetica del fungo. Tra filosofia e gusto” di tre anni fa, libricino per appassionati condiviso con l’amico Tony Saccucci, sui tic e la filosofia dei cercatori di funghi, senza trascurare l’aspetto del trattamento dei funghi in cucina.
In questa nuova edizione, edita da Balland, l’ambito territoriale guarda anche alla Francia, con uno sguardo particolare sul porcino, il re dei funghi. A traduzioni non ultimate, a luglio le prenotazioni erano già arrivate a 4 mila copie. «Per noi è un piccolo premio – sottolinea Chiaramonte – perché solitamente in Francia non pubblicano testi di cucina italiana, loro che vantano uno zoccolo duro di tre secoli di ristorazione. A ottobre lo presenterò in un atelier di un pittore siracusano che si chiama Michele Sanciofera, un signore che si è trasferito a Parigi da qualche anno».
Il cuciniere errante Chiaramonte si sta sempre più affrancando dalle radici siciliane e iblee di origine, allargando sempre più la conoscenza in ambito internazionale.
«Lo studio della cucina localistica, della provincia – io ovviamente conosco benissimo la Sicilia orientale, Ragusa, Siracusa, Catania -, mi ha aperto gli orizzonti perché la provincia apre, è un micro mondo intenso, ricco di storie e situazioni, di prodotti, di aneddoti, di ricette, e c’è sempre gente che vuole sapere. E poi le stesse verdure siciliane ci sono nella Francia del sud, in Spagna o in Portogallo. Troppo spesso in Sicilia abbiamo una visione geocentrica e invece abbiamo una comunanza di vari prodotti selvatici con molti territori».
Carmelo Chiaramonte è diventato uno chef di parole.
«In questo periodo mi sto dedicando alle ricerche e alla scrittura, invece che a padellare e a cucinare. Sono un ricercatore, un appassionato su quella che è la provenienza dei cibi, le storie, donne e uomini che sono dietro questo meccanismo, l’armonia della produzione agricola, la botanica, un mondo affascinante di cui molte cose non sono state fissate, scritte. Il 90% dei libri di cucina sono semplici ricettari, a me piace, invece, raccontare cosa c’è dietro il piatto, cosa c’è prima e cosa si può realizzare nel futuro. L’invito ad andare in campagna e nel bosco è una proiezione nel futuro, non è un modo di tornare indietro e di coltivare la malinconia al grido di “una volta si mangiava meglio”. In Sicilia, per esempio, abbiamo più di cento verdure selvatiche commestibili che non raccogliamo».
I cittadini, però, non sanno più dove si trovino questi ambiti naturali.
«Ci sono i libri, c’è anche Internet, bisogna cercare le cose, fotografarle e spendere un po’ di tempo per capirle. Certo, negli ultimi anni in tanti si sono riversati nelle campagne a cercare le erbe ma senza un buon manuale di botanica è facile sbagliare e raccogliere erbe tossiche, e qualcuno si è fatto male scambiando per esempio l’erba del diavolo, lo stramonio, per bieta. In Italia, purtroppo, si legge pochissimo, siamo impazienti e pigri e vorremmo trovare in campagna tutto e subito».
I francesi leggono di più, con loro sarà più facile parlare di filosofia del fungo.
«Il fungo ha una dimensione mistica intanto perché non è un alimento, non è neanche una verdura, è una muffa. Non è neanche nutriente, noi non prendiamo niente dai funghi se non pochissimi sali minerali. E’ l’aroma che ci cattura, il mistero del profumo. C’è questa sfida dell’uomo che vuole mangiare una cosa misteriosa, considerato che il fungo può essere anche tossico. E nel libro si parla anche degli animali che ci hanno insegnato a riconoscerli e a mangiarli: i conigli, o i cinghiali o i maiali, da cui il nome».
Che consigli gastronomici vengono dati sui funghi?
«Ci sono intanto consigli proscrittivi nel senso che indico non solo cosa fare ma anche cosa non fare. I funghi, per esempio, non accettano moltissimo il pomodoro, non vogliono essere cucinati a lungo, non vanno lasciati in frigorifero, non si puliscono sotto l’acqua ma con panni umidi e con pennelli per togliere la terra. Il porcino lavato sotto l’acqua si inzuppa e diventa flaccido e spugnoso. Sono finezze gastronomiche ma un modo anche per ridere sul cibo e sul mondo dei funghi. E’un libro ironico».
Certo, con la spennellata si rischia di mangiare un po’ di terra…
«In un altro libro cito una ricetta dettatami dalla botanica trentina Noris Cunaccia, che mi ha insegnato a preparare la zuppa fatta con terra raccolta oltre i 1800 metri di quota, terra di bosco che viene bollita sette volte, poi viene filtrata per cuocervi dentro il riso. Sopra vengono messi un po’ di funghi saltati. Sono piatti un po’ visionari, per poche persone, per sentire il sapore del bosco. Nel mio libro non riprendo la tradizione culinaria ma cerco di rappresentare la cucina dal punto di vista del fungo, quindi propongo accostamenti con il muschio fritto, con i germogli di felce. Esiste una gastronomia istantanea del bosco. E c’è anche un malcostume del bosco. Sull’Etna, per esempio, e non si capisce perché, i porcini si mangiano con la rucola, il limone, e il parmigiano, e invece mai con i caliceddi, il cavolicello. Il limone è la cosa peggiore per il fungo, ne cancella il sapore misterioso di foglia secca».
Parlando ai francesi, presumo, che bisogna stare attenti ai vini da abbinare.
«C’è un rapporto corposo fra fungo vino, e distillati. Prendi lo Chateau d’Yquem, il cui grappolo si ammala di un fungo che si chiama “botrytis cinerea” che ne caratterizza l’aroma e lo rende un vino pregiato: io propongo abbinamenti di questo vino con alcuni piatti fatti col porcino. Anche nelle cantine del Cognac c’è una muffa nera, che ne caratterizza il sapore».
Modica non ha potuto offrire granché in materia di funghi. Il cuciniere errante dove ha costruito la sua conoscenza micologica?
«Sull’Etna e poi l’ho confrontata con le tante incursioni sull’Appennino toscano, sulle Alpi piemontesi, accostando le varie culture che man mano ho respirato in varie parti d’Italia. A Modica regna il mistero del fungo di carrubbo, un fungo giallo-arancione della famiglia dei polipori, un parassita che vive sui tronchi degli alberi, soprattutto delle piante da frutto. E’ un fungo raro e costoso. A Frigintini viene celebrato in una sagra autunnale».
Cosa ci dice la Sicilia antica sui funghi?
«Lo scorso anno ho trovato un’antica ricetta a Trecastagni, in zona etnea, la salsiccia di porco con dentro i pezzettini di funghi porcini. Me l’ha rivelata un signore anziano che mi parlava dell’abitudine di portare dal macellaio i funghi che venivano tagliati a dadini e inseriti dentro il budello. Stiamo parlando di un piatto popolare ma superlussuoso che oggi si fa pochissimo anche perché sarebbe vietato portare i funghi in macelleria. Se, però, si prepara la salsiccia in casa si può fare: ne viene fuori una cosa meravigliosa. Dentro il budello il fungo un po’ stracuoce ma mantiene tutto il profumo. Invece di mettere il solito finocchietto si aggiunge un po’ di pepe nero e si ottiene una salsiccia fantastica. Adesso la ricetta è pubblicata e i francesi la scopriranno a breve».
La missione internazionale del cuciniere errante, dopo la Francia, ritornerà con buona probabilità in Giappone…
«Non c’è ancora un appuntamento ufficiale ma per il prossimo anno dovrei tornare per tornare a lavorare sul libro “Arancia”, uscito alla fine dello scorso anno. Tre anni c’ero andato per fare delle lezioni di cucina adesso in concomitanza con l’uscita del libro ci sarebbe un approfondimento sull’argomento, per comunicare agli altri la memoria di un territorio».
E dei continenti ancora ignoti quale ammalia di più?
«Il Sud America, non c’è dubbio. Ultimamente ho assaggiato la cucina peruviana a Barcellona ed è molto interessante. Non ci sono mai stato, spero di poterci andare presto».
Le conversazioni di cucina sono diventate quasi un format: dopo Modica dello scorso mese qual è il prossimo appuntamento?
«A ottobre a Roma, al Parco della musica. E proprio a Modica ho presentato il nuovo ciclo di lezioni che porterò a Roma. La prima lezione sarà sulla cucina imperfetta della mamma. Nella teglia di patate della mamma c’è n’è sempre una al dente e accanto una bruciacchiata, una cruda e una tenera e ben cotta, è una cucina sempre diversa, piatto dopo piatto. Le mamme non sono mai uguali nelle loro ricette. E’ una questione dibattuta da anni quella del confronto fra cucina seriale e cucina artigianale».
Presumo che Chiaramonte sia contro la serialità.
«Non c’è un tramonto uguale all’altro. Storicamente questo è il periodo più complesso della cucina siciliana perché oggi abbiamo etnie varie con cui confrontarci: i cinesi usano le nostre melanzane per fare gli involtini primavera. E’ il momento storico più fusion della cucina siciliana e su questo in futuro spero di poter fare una ricerca più seria. Non sarà facile anche perché bisognerà superare la diffidenza dei nostri corregionali immigrati. La cucina non stanca mai, è metafora di vita e cultura. E bisogna scendere in campo per capire il futuro».
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