La sceneggiata Brunetta-Schifani viatico di “rigenerazione”.
Come Astrea, la dea della Giustizia che gli antichi solevano spedire in cielo se in terra gli uomini provavano a offenderla, noi ci siamo tenuta la dea della Giustizia e abbiamo spedito in cielo la Morale.
I contemporanei di Elisabetta I d’Inghilterra proclamarono alla fine del ‘500 di essere riusciti a riportare Astrea in terra, e la “regina vergine” potè farsi rappresentare come Astrea. Nella agiografia cattolica sono troppi i santi (e le sante) a farsi simbolo di virtù, e non è dei nostri giorni la polemica indicazione che nel passaggio morale e giustizia non abbiano trovato nel culto dominante simboli autorevoli e condivisi.
Siamo in molti a chiederci se, in questo caos mitologico, stia la ragione della difficoltà presente nell’Italia nuovissima di avere una riforma della Giustizia (pubblica), come la chiede da 20 anni Berlusconi, o di tentare una pratica della morale pubblica quale, erede di Rosmini e Manzoni, il comunista Napolitano vorrebbe. Da qui le leggi ad personam per gli uni, e le grida spagnole (le leggi sono, ma chi pone mano ad esse?) degli altri. La singolare sceneggiata di questi giorni, con la “morale” della farsa affidata a Brunetta-Schifani per le conclusioni alte di Napolitano, chiamato a riprendere il processo di beatificazione di san Silvio di Arcore, potrà essere così viatico per l’attesa rigenerazione dell’Italia già turrita, con un grande passato e un maggiore futuro una volta concluso il presente purgatorio. In attesa tocca a Benigni guidare ancora il suo popolo fra cerchi infernali e cieli di santi e sante.
Resta d’obbligo la domanda: fino a quando riuscirà a Napolitano, in nome della disastrosa Realpolitik delle sue intese larghissime, impedire il ritorno in terra della Morale?
Quanto dovremo attendere per toglierci di dosso l’abito sporco e lacero di un Paese di ladri, di furbi, di evasori?
Questo terrorismo verbale – o larghe intese o il caos – è il peggior servizio che si possa rendere a un Paese impoverito, che dubita del suo futuro, che deve ogni giorno salvare banche e affari per la propria sopravvivenza, in nome di un’Europa da salvare dopo la farsa del Salva Italia di Monti e dell’Italia “da riformare” affidata a Berlusconi. Quando la finiremo con gli appelli all’orgoglio “nazionale” e alla immagine dell’Italia ripulita del fango nascosto e “salvata” grazie alle unzioni di Barroso, ora che la magistratura comunista ha certificato che il leader dell’evasione è l’uomo che dovrà riportare l’Italia a splendore: non gli hanno consentito di farlo in vent’anni, ma assicura che lo farà («Lo giuro») dagli arresti, mentre i suoi avvocati confidano nella grazia dell’Europa, se quella di Napolitano dovesse tardare. Frattanto abbiamo appreso che Berlusconi affida alla figlia il partito che è sua proprietà.
Le “larghe intese”, il nuovo eroico patriottismo di un’Italia sottratta al fato dualistico della sua storia (guelfi e ghibellini, nord e sud, democratici e moderati, destra e sinistra, cattolici e laici, Pdl e Pd), che ha suggerito a una consistente pattuglia di storici europei di fare del “trasformismo” il carattere identitario del Paese politico, si è rivelato in 2 anni la caricatura della grosse Koalition: ha sacrificato con cinismo disinvolto il patrimonio morale e politico della Repubblica per rendere presentabile – sotto la divisa della “governabilità” – la peggiore classe politica della propria storia. Napolitano si è intestato questa fase drammatica, di degrado e disperazione, prima con l’invenzione di Monti che salva al tempo stesso l’euro e l’Europa, quindi con le larghe intese ritagliate su misura su Berlusconi, con un Pd confuso e compiacente, in vista di riforme neoliberiste che liquidano come utopia il welfare, la scuola pubblica, il territorio e la sua agibilità, e cercano acquirenti per un patrimonio d’arte e di valori all’asta. E avendo abbandonato la ricerca (la teorica e l’applicata) al mecenatismo privato, interpretano la cultura – prodotta e consumata – in termini di autofinanziamento e di supporto a un turismo anodino e rapace.
E le grandi riforme, cui si affida sotto lo scudo europeo l’Italia di Napolitano-Berlusconi?
Son 30 anni, ci informa il nuovo ministro, che si attendeva la riforma della cultura “governata”: ma trent’anni fa, nel 1981, era esplosa appunto “la questione morale”. Quella che doveva travolgere Craxi, e affidare all’odiosamata magistratura la liquidazione della (prima) Repubblica, cui soccorse però (a sentir Quagliarello e Brunetta) lo “storico” salvataggio del Paese preda dei comunisti da parte dello “statista” Berlusconi, uomo della Provvidenza, che ha una storia più lunga di Napoleone Bonaparte e governi più lunghi di quelli di De Gasperi. Ribadisco come ridicolo il riferimento di Napolitano al compromesso storico del 76 per qualificare le sue larghe intese; tra la presente Realpolitik e l’austero moralismo di Berlinguer c’è un abisso.
La governabilità è una foglia di fico, come lo fu il senso dello Stato di Craxi “esule” ad Hammamet, donde egli vide le rovine del socialismo italiano, i cui sopravvissuti cercheranno riparo nel partito-azienda di Berlusconi. Fu la “transizione”, l’annuncio della nave-traghetto per la seconda Repubblica. Ora, grazie a Napolitano e a Monti e a Letta, si annuncia la terza (Repubblica). Siamo tutti assiepati all’approdo ma in vista sono solo i migranti dall’Africa, di cui pur sarebbe “culturalmente” importante studiare lingua, religione, civilisation se carattere della promessa (ma tuttora invisibile) Repubblica è la multiculturalità, la libertà sessuale, il femminismo.
Ma un Paese reso povero, disperato può aspirare a tanto?
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