I numeri parlano chiaro: la regionalizzazione della sanità è stata un vero disastro. I servizi non sono migliorati e la spesa si è moltiplicata a dismisura, passando dai 42 miliardi di euro del 1990, ai 60 del 2000, fino ai 114 nel 2010.
Quindi, dal 2001, anno della Riforma del Titolo V, i costi sono schizzati alle stelle (un incremento di 18 miliardi fra il 1990 e il 2000 e di 56 fra il 2000 e il 2010) e la crescita percentuale (+19,3% nella decade precedente la Riforma e quasi +70% in quella successiva) e quella calcolata procapite (si va dai 1190 euro del 2000 ai 1875 del 2010) confermano che la creazione di 21 servizi sanitari è stata pura follia. Ad oggi 5 Regioni (Abruzzo, Campania, Molise, Lazio e Calabria) sono commissariate e altre 3 (Sicilia, Piemonte e Puglia) stanno tentando difficili piani di rientro per evitare il default, mentre in Calabria l’accertamento del deficit sanitario è affidato a “certificazioni orali”.
La propaganda politica basata sul “portiamo il potere più vicino possibile al cittadino” ha alimentato a piene mani il clientelismo e i favoritismi, con la fine delle divisione fra controllori e controllati, come avveniva con le mutue. Per esempio, la spesa per invalidità è schizzata da 6 a 16 miliardi, perché gli invalidi civili sono passati di colpo dal 3,3% al 5% della popolazione, aumentando di 1 milione in 10 anni. Mentre l’Inps, controllando pensioni di invalidità concesse dalle Regioni, scopre una truffa ogni 4 accertamenti.
Ma la diversificazione dei sistemi sanitari fra le regioni comporta ulteriori complicazioni: le imprese sono disincentivate ad investire perché trovano condizioni troppo eterogenee, i pazienti sono discriminati nelle prestazioni che ricevono e i costi dei beni sono troppo difformi sul territorio. La regola dei costi standard, da applicare attraverso la Consip (che andrebbe usata di più), è una soluzione i cui risultati positivi si evincono da quanto è già successo nel settore dei farmaci in cui, attraverso l’Aifa, vengono definiti costi uniformi in tutto il territorio nazionale per i prodotti farmaceutici e (coincidenza) negli ultimi cinque anni la spesa relativa è diminuita del 3%.
Dunque, quando si parla di risorse per la crescita che mancano e di spesa pubblica difficilmente comprimibile, salvo cercare gli sprechi con il lanternino della spending review, bisognerebbe leggere questi dati e valutare se non sia il caso di rovesciare l’approccio: ci sono riforme da fare che oltre ad essere necessarie per rendere più efficiente un servizio pubblico fondamentale possono anche produrre risparmi da destinare ad altre esigenze.
Che fare? I buoni esempi non mancano. Francia e Spagna hanno introdotto meccanismi graduali di compartecipazione del cittadino, con esenzioni per tipo di patologia e per livello di reddito. L’Olanda, che ha un sistema pubblico-privato che grava solo per il 14% sulla fiscalità generale, ha introdotto l’assicurazione privata obbligatoria (con esenzioni in base al reddito) che deve garantire prestazioni sanitarie minime per legge. Un sistema che standardizza le prestazioni a costi inferiori. In Italia, nel 2050 una persona su tre avrà più di 65 anni. Pensare di programmare una strategia sostenibile senza un riaccentramento delle competenze sanitarie dalle Regioni allo Stato è impossibile. Se non torniamo a Roma, il rischio è di dover andare all’estero a curarsi, come già avviene sempre più spesso.
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