A tutti sarà capitato di riflettere sul distacco, forse irreversibile, tra noi e la generazione dei nostri figli, ora cinquantenni, un distacco segnato dalla frattura tra Politica e Cultura, tra il viver questa come impegno civile e la politica come costruzione del consenso intorno a valori – la libertà, il progresso, la giustizia, il buon governo e, su tutto, il lavoro, l’opera che genera dignità e ricchezza, su cui i padri costituenti del 1946 avevano voluto che fosse costruito il nuovo edificio ‘repubblicano’.
E’ la domanda che ancora oggi accomuna i superstiti della sua e mia generazione.
Quando e perché quel distacco, quella frattura tra Politica e Cultura, che travolse – cattolici, socialisti, liberali – il più antico nesso, quello tra Etica e Politica?
Per anni ci siamo chiesti perché a Ugo La Malfa, che chiedeva austerità ad un paese ormai avvezzo a vivere ‘sopra i propri mezzi’, fosse affibbiato il nomignolo (‘ngiuria in siciliano) di Cassandra: ed il motore del ‘lavoro’ fosse individuato nei consumi di una società affluente piuttosto che nella produzione e nell’invenzione; e inoltre la rendita attraverso le partecipazioni statali (e regionali) e le complici astuzie parlamentari avesse modificato il fondamento storico del privilegio, la virtù ed il merito, per il pactum sceleris tra ceto politico e struttura amministrativa, nazionale e locale.
Nel promuovere le ‘larghe intese’ (versione carnevalesca della Grosse Koalition) Napolitano con un leger de main ha anche indicato negli anni ’70, il tempo tragico che fu del centrosinistra, del compromesso storico, del terrorismo, un precedente ed un esempio da recuperare e inverare nella risposta alla crisi presente: e non vi ha visto, come è stato in fatto, l’avvio del declino, di quella finis Italiae che culmina nel presente dramma e caos – e rende stridulo il canto patriottico, e fa veder stracci e piaghe nel corpo nazionale avvolto in tutta fretta in un bandiera macchiata di fango e sangue, ricevuta in comodato d’uso dalla Ue di Barroso con la garanzia di Draghi.
Ora che persino la Cassazione vuol mandare in soffitta il palloncino sgonfio della ‘governabilità’, la politica di casa nostra trova difficile ammettere che lo scandalo italiano non è nel debito pubblico, ma nella disparità sociale che di quel debito è causa ed effetto insieme. La crisi non si vince con i salva Italia, che pongono i responsabili delle dilapidazioni e dell’affarismo al riparo da processi per colpa grave: o con la retorica promessa di solidarietà che tocca solo i poveri visibili: quando si è manifestata in Italia, e in pressochè tutta Europa come liquidazione del ceto medio e crescente distanza tra i ricchi e i poveri. E’ la pressione che le ultime generazioni (ed ora son giovanissimi i sedotti dalle suggestioni dell’inutile oggetto che conferisce prestigio) esercitano sulle famiglie, accrescendone disagio e precarietà – in un contesto che la Politica non sa (o non vuol sapere) di leggere, e l’Antipolitica vive tra utopie palingenetiche, rivolte morali e speranze per lo più in difficile equilibrio tra appropriazione e giustizia.
Per tornare al quesito da cui abbiamo preso l’avvio, la frattura tra Politica e Cultura che ha segnato a metà degli anni ’60 il declino della (Prima) repubblica fu la proposta di una società affluente quando la domanda diffusa, la sola che avrebbe potuto assicurare la solidale continuità fra generazioni, era per una Società giusta. Se ne cercate una misura, la troverete senza sforzo più che nel reaganismo, nel thatcherismo nel ‘nuovo socialismo’ di Blair e di Craxi, di Suarez e di Gonzales (Spagna) – la cui vicenda privata ha segnato in forme a volte drammatiche, sempre clamorose la disfatta di propositi ambiziosi, fragili nell’ambiguità del disegno, e improponibili a fedeli e infedeli.
In questa tragica storia, che copre ormai mezzo secolo, l’arroganza della politica è giunta al punto, per rimuover proprie responsabilità e tenersi stretti i privilegi, di negare ogni differenza tra la società e la politica che pretende governarla. Inutile quindi sarebbe chiedere una nuova politica per una società che cambia: e necessita tenere il gioco all’interno del ceto politico com’è, in nome della governabilità che è poi la presente ragione delle due debolezze (Pd e Pdl) che dovrebbero – per una congiunta ‘cospirazione patriottica’ (leggi larghe intese) – fare una forza, la forza delle riforme assicurate e dalla ‘tecnica’ di Monti e dalla ‘politica’ del rigenerato Berlusconi. Entrambi associati nel credersi superiori alla giustizia dall’equilibrio (si fa per dire) di Napolitano.
Non sono interessato al nome, chiamatelo intesa o inciucio: si tratta di un pasticcio. V’ha una exit strategy? non se ne vedono anticipazioni o segnali. Eppure, se nel ricordo di uno storico amico, pongo a me ed ai pochi superstiti della generazione nostra il dovere di consegnare a chi vien dopo un patrimonio morale, questo identifico nel progetto di una ‘società giusta’, la sola in cui sia possibile salvare quel nesso tra Morale e Politica che di entrambe assicura e significato e senso.
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