Il Novecento, ultimo secolo del passato millennio, ha ratificato come indesiderabile la Sicilia, con pietra tombale ne ha occultato viscere mitiche mitologiche divine. Isola di «cultura» prima che isola geografica, la Sicilia, per 2500 anni magnete di mecenati e mecenatismo, interrotto epicinio all’Arte, la Poesia, la Storia.
Dai tiranni di Siracusa ed Agrigento, Ierone e Terone, a Federico II, alla sua Scuola poetica Siciliana che distillò le parlate meridionali fino a comporne una lingua letteraria «elegante e generica». Lingua che avrebbe potuto divenire lingua letteraria italiana, se solo l’Italia fosse stata unificata dagli svevi e la Scuola poetica siciliana non fosse stata privata, alla fine della monarchia sveva, del sostegno politico-culturale su cui poggiava.
Parola chiave per nascite/rinascite, evoluzioni/involuzioni è sempre la «politica». Gli Stati, l’Intera Ecumene evolvono o involvono, risorgono o necrotizzano per «Politica». Ed è per «Politica», stricto e/o universo sensu, che il Novecento ha consegnato l’ Isola a quello sprofondamento culturale di cui potrebbe essere metafora perfetta l’isola ferdinandea, definitivamente inabissata in un’eclissi d’onde.
Nessun intellettuale varca più lo Stretto alla ricerca d’una «Corte» di fiaccole culturali, d’una magnitudo d’ Arte che, sola, potrebbe oppugnare il travestimento dell’infame tempo. Sì, sopravvive una «corte», ma è corte infame di cortigiani indigeni, miseri ossequiosi parassiti alla ricerca della pagnotta, d’un ruolo bastardo, figliato da un’elezione o da un’investitura da parte dei tanti padroni di turno. Padroni che sbarcano in consigli d’amministrazione, sottogoverno e simili, come sperduti marziani d’altri mondi, e nascondono l’impaccio e l’ignoranza di qualsiasi concetto, giuridico amministrativo o economico, dietro l’ultimo modello di iphod. Chi potrebbe venirci in una Sicilia così devasta e devastante, con promontori di «immondizia» culturale e non, alti quanto i promontori dei Peloritani? Quando una terra si svuota della sua attrazione «culturale», viene fatalmente e scelleratamente consegnata al deserto. Questa, in breve, la nostra ipotesi sull’ attuale desertificazione culturale siciliana.
A conferma della nostra tesi, portiamo quel finissimo intellettuale greco, nato nel 556 a. C. nelle Cicladi, Simonide di Ceo che, attratto dalla Sicilia, fu persino abilissimo mediatore politico tra Ierone e Terone, un tempo amici ma, all’epoca, sull’orlo d’uno scontro armato.
Grandissimo Poeta, Simonide giace, nell’ignoranza dei più, sepolto ad Agrigento, dove morì quasi novantenne. Simonide era venuto in Sicilia, dopo lungo periglioso viaggio, perché l’Isola era fucina d’intellettuali, concime d’intelletto, patria di Belle Arti.
Era venuto in Sicilia dopo essere stato ad Atene alla corte di Ipparco che, morto il padre Pisistrato, ne proseguì la politica culturale, circondandosi di “menti” non certo di parassiti né di badanti come avviene oggi; circondandosi di musicologi, come Laso di Ermione o di cantori orfici, come l’ateniese Onomacrito.
Le mete di Simonide furono, dunque sempre suggerite dai lumi d’una Corte, che rendeva grande ora Atene ora Siracusa ora Agrigento.
Simonide e la sua arte furono supporto delle splendide tirannidi siciliane, ove la sua parola poetica fu oltre l’«individuale», fu corale strumento celebrativo sia della gloria dei caduti per la Patria sia degli splendori delle corti, senza però mai rinunciare alla funzione bisturi della poesia individuale, chirurgia dell’anima.
«Poiché sei uomo, non dire mai quel che accadrà domani, e se vedi uno felice, per quanto tempo lo sarà: veloce è il mutamento, come neppure lo sposatamento della mosca dalle ali distese» (fr. 16 P). Questo frammento – riportato da Stobeo, parte d’un carme in onore di Scopas, tiranno di Crannone in Tessaglia – è universale perché universale indeperibile è il motivo della precarietà dell’uomo e della sua umana deperiblità. Felicità infelicità si surrogano veloci più d’un volo di mosca, l’una uccide l’altra in tempi e modi imprevedibili. Dunque una e una soltanto la prevedibilità per l’uomo, si chiama finitezza, si chiama mutamento veloce più d’un volo di mosca. Bellissimo, anche per gli esiti nel linguaggio medico, il termine greco «metastasis» (sposatamento).
Morire per la Patria è bello e onorevole «di coloro che caddero alle Termopili gloriosa è la sorte, bello il destino; la loro tomba è un altare, il loro compianto è lode» (Simonide, fr 26P).
Le Termopili sono un passaggio obbligato dalla Tessaglia alla Locride, tra le montagne e il mare. Qui i greci, nel 480 a. C., furono sconfitti dai Persiani dopo un strenua resistenza del contingente peloponnesiaco, costituito da 300 spartiati, guidati da Leonida. Per Diodoro Siculo gli eroi caduti alle Termopili «soli, tra i greci che vissero prima di loro, ottennero l’immortalità per il loro straordinario valore». Silvana Grasso
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