I grillini stanno dando più forza a Berlusconi. Con l’arroccamento cinico e irrazionale mentre la crisi urge.
Si dice che la vittoria ha molti padri, mentre la sconfitta è orfana. Nel caso delle ultime elezioni politiche, però, si è più propriamente parlato di “non vittorie” e di “non sconfitte”, posto che ogni tesi è sembrata sostenibile a seconda dell’angolo visuale da cui si è guardata. La vittoria elettorale da taluno rivendicata richiama alla mente quella di Pirro contro i romani ad Eraclea (280 a. C.) che, secondo la narrazione di Plutarco, indusse il re dell’Epiro a ritirarsi in buon ordine temendo che altra simile vittoria lo avrebbe distrutto definitivamente.
Nel nostro caso quel che rimane indiscutibile è il fatto che, da un canto, nessuna delle due più significative forze politiche, pur maggioritaria in una delle Camere, risulta in grado di governare da sola, e che, per altro verso, una alleanza fra loro appare (allo stato) di difficilissima attuazione, per un rapporto di incompatibilità – quasi anafilattico – che da decenni le divide. Con la conseguenza che ogni soluzione appare discutibile e addirittura improponibile. Persino quelle prospettate dal capo dello Stato, che per anni, pur dilatando al massimo consentito le sue prerogative costituzionali, è stato additato come saggio e avveduto interprete delle esigenze del Paese in momenti di gravissime difficoltà.
Quel che maggiormente stupisce è la mutevolezza dei giudizi che partiti e commentatori politici offrono sulle attuali contingenze socio-economiche e sui personaggi, “imparpagliati” (direbbe Camilleri) e tutti in cerca di autore, che affermano oggi quel che hanno negato e, viceversa, indicano soluzioni che prima condannavano come assolutamente inaccettabili. Sicché su tutti grava un marcato senso di smarrimento, tanto più che, rimanendo immutata la attuale procellosa (e, tutti dicono, porcellosa) legge elettorale, non è pensabile che la situazione cambi scegliendo il voto anticipato… Che a parole tutti dicono doversi scongiurare, mentre in pratica nessuno si muove convintamente per un mutamento delle regole, temendo ciascuno che ne risulti danneggiato.
L’unica incognita, in tale eventualità, è il futuro comportamento dell’elettorato grillino, che in verità, al momento, non sembra facilmente decifrabile. C’è il sostegno entusiasta di chi sottolinea che l’ex comico ha portato una ventata di idee nuove mettendo alle corde la vecchia nomenclatura partitica, così da costringerla a cedere su qualche prassi inconcludente o privilegio di casta ormai insostenibile. E chi, invece, è rimasto del tutto frastornato (e quasi pentito) per un arroccamento del tutto irrazionale del Movimento 5 Stelle. Il quale, sostanzialmente, con cinica egoistica determinazione, preferisce stare a guardare, e – dopo avere dileggiato il Cavaliere in tutte le piazze d’Italia, facendone il principale bersaglio delle sue impietose scurrili invettive – ora gli conferisce, di fatto, la conseguente possibilità di condizionare pesantemente la costituzione di un futuro governo e la scelta del prossimo presidente della Repubblica.
La verità è che il ritorno in grande stile di Berlusconi crea difficoltà difficilmente superabili. Sia per il carico di processi che incombono su di lui – e da cui cerca di sfuggire con ogni mezzo dilatorio – sia per la sua impresentabilità in campo internazionale, dove è ritenuto inaffidabile e trattato (assimilandolo a Grillo) alla stregua di un clown. E tuttavia il suo stupefacente successo elettorale (davvero inimmaginabile da chi si illudeva fosse ormai politicamente spacciato) lo legittima a sedere al tavolo delle trattative, col solo interlocutore che “obtorto collo” è rimasto disponibile, fra tanti contrasti, ad interloquire. Né è pensabile che il Pdl metta da canto il suo fondatore e padrone. E’, infatti, ormai dimostrato che senza il suo carisma il partito si sfalderebbe in un batter d’occhio, come stava per accadere quando annunciò il proposito di ritirarsi dalla scena politica.
Intanto i problemi urgono e il governo Monti, pur dimissionario, è chiamato a occuparsi degli affari ordinari, che poi tali non sono a causa della crisi economica che non accenna a risolversi e necessita di interventi non certo rinviabili. Peraltro non v’è giorno che l’Europa non ci bacchetti per le nostre manchevolezze. Recentissima la notizia che l’Italia è stata condannata al pagamento, limitatamente al decorso anno, di ben 120 milioni per denegata giustizia, a causa del ritardo – per i più vari motivi – nel definire i processi in tempi ragionevoli o per non averli definiti affatto. Altra procedura di infrazione è in corso per la incivile situazione delle carceri ed è prevedibile altra condanna.
E, a proposito di giustizia, non si dica che la colpa vada attribuita allo scarso rendimento dei magistrati, che pur qualche marginale responsabilità possono averla specie per la incombente (spesso ricercata) visibilità. Proprio in questi giorni è stato reso noto un rapporto del Cepej (Commissione europea per l’efficacia della Giustizia) che obiettivamente smentisce il luogo comune secondo cui i magistrati guadagnano molto e producono poco. Il rapporto dimostra che gli stipendi rientrano nella media europea e che, quanto a produttività, i giudici italiani sono al primo posto nella materia penale (seguiti da Russia e Germania) e al secondo posto in materia civile (preceduti dalla Russia e seguiti da Ucraina e Spagna). E ciò nonostante che in Italia la percentuale di criminalità e litigiosità sia di gran lunga superiore a quella di altri Paesi europei di eguale dimensione, che tuttavia sono dotati di strumenti processuali più snelli e meno farraginosi.
Sperare che anche in questo campo possa introdursi a breve un qualche novità è assolutamente improbabile, oltretutto per la situazione di stasi più sopra illustrata e resa più grave dall’atteggiamento del Movimento di Grillo, il quale isola i suoi rappresentanti al Parlamento e li riunisce (risum teneatis!) in isolate strutture agro-turistiche per studiare riforme costituzionali e regolamentari al riparo da occhi indiscreti.
La qual cosa potrebbe far ricordare quanto avvenne al tempo della rivoluzione francese, quando il Terzo Stato, stanco dei privilegi e delle prevaricazioni della Nobiltà e del Clero, dovette lasciare la sede dell’Assemblea e, per rivendicare libertà e fraternità, si riunì – era il lontano 20 giugno 1789 – in una sala detta della Pallacorda per pronunziare il solenne giuramento di fedeltà a quei principi. Un giuramento di civiltà che storicamente prese nome e fama proprio dal luogo di quella riunione assembleare. La quale, pur nel rispetto delle tante brave persone che, festose, si sono riunite fuoriporta e poi, sonnolente, al calar della notte in saloni parlamentari, era una cosa veramente diversa e seria. Mario Busacca
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