E Lei che lavoro fa? Sono architetto. Anche mia moglie ha buon gusto…”.
Un dialogo non raro che rappresenta la sintesi di una certa percezione che oggi in Italia si ha di questo mestiere. È la conseguenza dello svilimento di una professione, tra le più antiche considerando che essa nasce nella preistoria passando poi all’invenzione delle palafitte, e via via per le piramidi fino ad arrivare alle grandi opere dei giorni nostri, dove gli architetti, in buona parte del mondo, sono considerati delle vere e proprie star, capaci di influenzare il pensiero mondiale. Non è proprio così la realtà italiana, che pur fino alla seconda guerra mondiale era considerata la pietra di paragone dell’architettura, come riconosciuto proprio pochi giorni fa da una grande archistar, Peter Eisenman.
Dalla ricostruzione post bellica in poi il mestiere ha subito attacchi su vari fronti: da quello universitario a quello delle competenze fino a quello del materiale esercizio. Sì, perché i percorsi universitari, che una volta garantivano una preparazione mediamente elevata, sono stati indeboliti da improvvide riforme, fino all’ultimo disastro rappresentato dal DPR 328/2001, che ha spezzettato la visione dell’Architettura, arte e scienza unica, olistica, che ha sempre avuto il compito di operare sulle trasformazioni del territorio, dell’ambiente, dello spazio fisico costruito per garantire una migliore qualità di vita dell’uomo.
Sono nati così gli architetti junior (triennali), altre figure ibride, paesaggisti, conservatori, pianificatori, ognuna delle quali in teoria portatrice di saperi specifici ma che in realtà, sia per la limitatezza del percorso formativo sia per l’errore in radice, ha creato dei “personaggi in cerca d’autore” che non trovano, ne potrebbero, un modo per inserirsi nel circuito produttivo. Oggi abbiamo una media di sei-settemila nuovi architetti che ogni anno si affacciano sul mercato italiano e che vanno a ingrossare le fila dei 145000 già iscritti.
Un esercito gigantesco, se consideriamo che in Italia si registra la presenza di un architetto ogni 400 abitanti contro uno su 2000 in Francia. Il raffronto con i Paesi Europei mostra che il numero degli architetti Italiani è dieci volte quello della media europea e ne rappresenta (dati Cresme) il 30 % sul totale. E non basta ancora, perché in Italia, tra i pochi Paesi al mondo, l’architetto non è il solo responsabile delle trasformazioni del territorio e dell’ambiente e quindi anche del processo costruttivo; deve confrontarsi, in una gara al ribasso, culturale e economico, con altre figure che sarebbero naturalmente collaterali ma che, complice una legislazione colpevolmente obsoleta, più o meno legalmente agiscono nel suo stesso campo. Oltre ai tecnici laureati e diplomati di altra estrazione, si contano poi anche altre figure, per esempio i cosiddetti “architetti d’interni” alcuni dei quali a volte dimenticano di precisare la specifica “d’interni”, cioè il loro essere solo arredatori e il cui titolo nulla vuol dire, specie perché non esiste nell’ordinamento italiano.
I risultati sul territorio purtroppo si vedono, la qualità delle città e del paesaggio è stata ed è messa a dura prova e non c’è da meravigliarsene se consideriamo che di tutto quello che è stato costruito in questi decenni solo il 5% è attribuibile all’opera dell’architetto. Oggi la professione di architetto rappresenta la quinta categoria professionale per numero di iscritti, di cui il 40% circa costituito da donne, dato in forte crescita dal 1998 quando la percentuale si attestava al 31%. Ancora il 40 % degli iscritti ha meno di quarant’anni, testimonianza del grande fascino che questo mestiere ancora ha. Questi dati sono accompagnati da gap reddituali tra le diverse categorie e che sono facilmente spiegabili con la sempre maggiore difficoltà di accedere al mondo del lavoro sia autonomo che dipendente. Su questo quadro, non proprio esaltante, si sono innestate le infinite discussioni sulla riforma dell’ordinamento professionale, con la quale si sono misurati diversi Governi e che solo da qualche mese ha trovato una sua parziale conclusione, tra qualche luce e molte ombre, perché partita da un presupposto non esatto, e cioè che le professioni in Italia non rispondessero ai principi liberali e di liberalizzazione che l’Europa ci chiedeva.
Si è cominciato dal Decreto Bersani che abolì le tariffe minime, considerate un ostacolo alla concorrenza, si rischia di finire, su pressione dell’Autorità Antitrust, con l’eliminazione dell’art. 2233 del Codice Civile sul diritto al “decoro” per la professione. Queste condizioni, hanno portato a un grave stato di sofferenza degli architetti italiani sui quali, tranne pochi casi, la crisi aggiunge ulteriori pesanti effetti, e che le organizzazioni di categoria sono chiamate a gestire. Il Cresme rileva che in Italia, la professione di Architetto è tra le meno redditizie, con un trend reddituale in decrescita (si stima un – 20% tra il 2006 e il 2010, quando la crisi non aveva ancora colpito in pieno l’Italia). Nel medio periodo le previsioni appaiono meno fosche. Si stima infatti che al 2014 si dovrebbe verificare per la professione una tendenza all’incremento occupazionale di circa il 10 %, a fronte di un decremento rispetto alle nuove iscrizioni universitarie del 31 % e del 12% per chi poi consegue effettivamente la laurea magistrale. Un contributo forse potrà darlo anche la presa di coscienza da parte del Governo del ritardo che l’Italia ha accumulato rispetto alle politiche urbane e infatti, negli ultimi giorni e su sollecitazione delle categorie interessate, ha messo in campo il “Piano delle Città” e un organismo volto all’implementazione di queste politiche. Se questi strumenti verranno correttamente gestiti, senza affarismi di bassa lega e senza favori, ripristinando in qualche modo i giusti valori in campoverso la qualità ambientale, la sicurezza delle costruzioni, l’efficientamento energetico, sui quali la professione si sta scommettendo, si potrà aprire qualche prospettiva per il Paese.
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