Il 2011 è stato l’anno del land grabbing, un fenomeno che si sta sviluppando sempre più e che è praticato dai governi e dalle grandi società multinazionali. «Land Grab», traducibile in rapina (grab) della terra (land), è la rapina praticata dai potenti ai poveri contadini delle aree meno sviluppate del mondo che si vedono espropriare le terre ereditate con estrema facilità di cui non detengono formali diritti di proprietà. Quindi il business priva i contadini delle terre e di conseguenza del lavoro e anche del semplice diritto al cibo e alla sopravvivenza.
Secondo l’International Land Coalition, in 10 anni, 203 milioni di ettari sono stati acquistati (ceduti) o affittati e fino a 99 anni (o sono in via di): una superficie pari a 7 volte quella dell’Italia, oltre 20 volte quella delle nostre terre coltivabili, più o meno le dimensioni dell’Europa nord-occidentale. I prezzi a cui le terre vengono cedute sono irrisori, per esempio in Tanzania un acro viene pagato dagli investitori 0,35 euro e questo assalto è perpetrato anche sulle terre dell’Etiopia, del Sudan, del Ghana, del Senegal, della Liberia e del Mali.
Il continente Africano è il più colpito dal Land Grab, infatti l’Africa rappresenta il 70% delle trattative del nuovo colonialismo e poi di seguito vi è l’Asia e l’America Latina e una piccolissima quota europea. Quando si parla di Europa l’esempio più lampante è quello della Bulgaria, che è diventata l’eldorado degli investitori agricoli europei (soprattutto francesi) e per attirarli dal 2007 ha aumentato del 24% le sue aree coltivabili, senza tener conto delle ricadute ambientali.
Ma quali sono i governi che hanno dato inizio e continuano questa corsa alla terra? In prima linea vi è l’Arabia Saudita, la Cina, l’India, la Corea del Sud, il Qatar, ma anche multinazionali di alcuni paesi emergenti come Brasile e Russia. Altra domanda rilevante da fare è: Perché esiste questa corsa alla terra?
Le risposte di facciata dei governi acquirenti delineano la volontà di garantirsi una propria sicurezza alimentare, ma secondo indagini più veritiere il 37% delle negoziazioni avrebbero come finalità la produzione di biocarburanti, seguiti da produzione agricola (11,3%) e produzione di legno ed estrazioni minerarie (8,2%). Secondo il rapporto “Land and power” diffuso dalla Ong internazionale Oxfam, oltre al racconto delle aggressioni che le popolazioni hanno subito per cedere le terre si evince che il fenomeno del land grabbing è cresciuto esponenzialmente dal 2008 in poi, quando la crisi finanziaria internazionale e gli alti prezzi delle derrate alimentari hanno spinto investitori, multinazionali e fondi di investimento a comprare enormi fette di terreni agricoli.
L’ammontare complessivo calcolato da Oxfam è di 227 milioni di ettari di terre fertili comprate o affittate a lungo termine. L’Onu, e in particolare la Fao – prosegue Oxfam – dovrebbero adottare un approccio più orientato a tutelare i diritti dei poveri, e in particolare delle donne, nella gestione della terra, anche per aumentare la sicurezza alimentare di alcune delle zone del pianeta più esposte al rischio di denutrizione. Molti governi hanno iniziato a riflettere sul problema land grabbing, per esempio l’Argentina ha approvato una legge per limitare l’acquisizione delle terre da parte degli stranieri, il Brasile ha fatto qualcosa di simile.
Ma la strada più auspicabile è un’altra (tesi apprezzata da molti giuristi di diritto internazionale): non l’utilizzo di codici di condotta o di uno strumento di diritto internazionale del diritto del cibo ma l’utilizzo delle norme consuetudinarie vincolanti come la tutela dei diritti fondamentali, riconosciuti anche dai patti dell’Onu del ’66. In poche parole per gli stati Africani la strada sarebbe quella di adottare contratti che prevedano l’obbligo di una ricaduta positiva sulle popolazioni locali. Un libro che racconta l’allarmante e dilagante fenomeno del land grabbing è “Land Grabbing” di Stefano Liberti (giornalista vincitore nel 2010 del prestigioso premio Indro Montanelli). Un reportage sul mondo che spiega come i legami fra politica internazionale e mercato globalizzato stiano cambiando il volto del mondo in cui viviamo.
Alfonso Fiumarella