«Gli dovrebbero rompere le corna». A 83 anni e con parecchi ergastoli alle spalle che sta scontando, in regime di 41 bis, nel carcere milanese di Opera, il corleonese Totò Riina continua a fare paura.
Destinatari della minaccia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, i pubblici ministeri del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia che si sta svolgendo davanti alla Corte di Assise di Palermo e che annovera, tra i dieci imputati, anche il capo dei capi di Cosa nostra catturato il 15 gennaio del 1993.
La frase sarebbe stata profferita – e puntualmente registrata dalle “cimici” – nel corso dell’udienza di giovedì scorso, seguita in videoconferenza da Totò “u curtu” mentre testimoniavano i killer pentiti Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante.
Rafforzate le scorte ai quattro magistrati – ai quali è giunta, da ogni parte, una pioggia di solidarietà – il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, parecchio allarmato, prova ad analizzare l’accaduto, pur non volendo confermare né smentire «la fondatezza di una notizia che avrebbe dovuto rimanere segreta». «Ammesso che siano vere – osserva – queste minacce sembrano una chiamata alle armi che il boss fa ai suoi contro i magistrati che svolgono l’inchiesta sulla trattativa e sono visti come ostili».
«Nella nostra analisi abbiamo concluso che le minacce di Totò Riina – aggiunge il procuratore, sollevando più di un’inquietudine – potrebbe essere una sorta di “assist” ideale a soggetti diversi da Cosa nostra. Perché, dopo ciò, in caso di un’azione violenta, le investigazioni si orienterebbero sulla mafia lasciando fuori la responsabilità di altri soggetti. Non dico che Riina consapevolmente abbia voluto dare una mano a qualcuno, ma questa potrebbe essere una copertura ideale di azioni criminali commesse da altri o altri collaboratori di Cosa nostra».
Quanto a Di Matteo, conclude Messineo, «non c’è nessuna seria prospettiva di trasferirlo: è già adeguatamente protetto».
Giorgio Petta
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