I 50 anni del romanzo “Mio padre Adamo”
Fu l’anno che s’ammazzarono i ventiquattro briganti di Chirchiotto».
Inizia così “Mio padre Adamo”, romanzo del filosofo e scrittore di Butera Fortunato Pasqualino. Un inizio crudo che segna il racconto di una famiglia – una delle tante – della Sicilia povera e disgraziata, dai primi del ‘900 alla fine della seconda guerra mondiale.
Il romanzo, Premio Campiello 1963, si presenta come una favola, dove date e anni non vengono svelati, se non attraverso gli aneddoti raccontati da un bambino, nato proprio nell’anno del massacro. Il libro affronta tre periodi della vita del piccolo protagonista.
Il primo, antecedente alla sua nascita, dove la madre aveva già vissuto il dolore di Maria; già cinque volte e tre chiodi per ognuno.
Incinta del settimo preferisce la morte pur di non rivivere quello strazio. Donna Filippa, l’indovina, le consiglia di leggere “Le Mille e una notte” e profetizza l’arrivo di un figlio in salute. Così la madre crede e rinuncia al peccato. Una figura importante è quella del padre, descritto come un uomo all’apparenza imperturbabile ma che porta con sé l’ombra della sfortuna e della colpa per via della perdita, nel fiume, di un carro e di un cavallo, e della mala gestione di un terreno, Funtanachianu, lasciatogli in eredità da suo nonno. Non manca l’alone della politica, meglio individuato nel personaggio dello zio socialista.
La seconda parte è la più autobiografica. Alla famiglia viene dato in gestione un piccolo terreno a Sgricciolo. Si lavora tanto. Ma la tranquillità viene presto spezzata. I proprietari, informati della buona salute della terra, tornano per riappropriarsene. Così la famiglia lascia Butera. La meta è Caltagirone. Qui il bambino viene iscritto a scuola. Ma la scuola non porta pane. Strappato allo studio viene mandato a lavorare nei campi; affittato per due mondelli a una Sicilia che non fa sconti. Le bacchettate ai primi errori e le piaghe alle mani che formano l’uomo; un uomo di nove anni.
La terza e ultima parte ci mostra l’aspetto più feroce e grottesco della guerra. Siamo nel secondo conflitto mondiale. Contadini vestiti da soldati, ammassati sulle camionette come nei carretti. Il mitra al posto della falce. Solo che questa volta, sopra le teste, non ci sono le cornacchie che minacciano i meloni. Adesso ci sono gli aerei che sputano fuoco. Italiani, americani, tedeschi: tutti figli e assassini innocenti, tra le montagne o in trincea a fare da balza ai sacchi di sabbia. Con la fine della guerra si torna a casa. Il padre, ormai malato, sembra aver scontato le sue colpe. Un saluto alla madre e poi a Roma, per una nuova vita.
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